Negli ultimi 10 anni sono ben 7 i punti percentuali di market share “strappati” alla tv. I fattori di crescita principali sono programmatic e social network, che accelerano grazie ai dati
Nel 2018 il mercato pubblicitario italiano ha raggiunto i 8,2 miliardi di euro, segnando una crescita del 4% rispetto all’anno precedente, ma soprattutto iniziando a somigliare sempre più alle country più mature, dove gli investimenti digitali fanno la voce grossa su quelli televisivi. È vero, il piccolo schermo si conferma il re del planning controllando il 47% del mercato, ma il digitale ha superato la boa dei 3 miliardi (+11% YoY), rappresenta il 36% del totale investimenti e negli ultimi 10 anni ha mangiato 7 punti percentuali dalla fetta controllata proprio dalla tv (e 16 a quella della stampa, che vale il 12% del mercato). La radio è il media più contenuto: rappresenta il 5% del totale investimenti - fin dal 2008 - ed è cresciuto del 5% rispetto all’anno precedente. Durante l’evento “Data&Media: handle with care!”, sono stati presentati i dati raccolti dall’Osservatorio Internet Media della School of Management del Politecnico di Milano, e sono poi emerse considerazioni sul sistema pubblicità che ne delineano il presente e il futuro.
Digitale: i fattori di crescita
I driver a trainare l’online sono principalmente due. Escludendo il fattore video, che ormai è la buzzword dell’anno da anni - «ma questo è l’anno del video per eccellenza», dicono alcuni addetti ai lavori - sono programmatic e social network la locomotiva dell’economia online. Il programmatic «chiude il 2018 a 482 milioni di euro, rappresentando il 16% del totale digital e il 26% della display. Rispetto all’anno scorso ha vissuto una crescita del 18%, molto buona, ma ancora piuttosto lontana dai mercati più maturi. Nonostante il rischio di una maturazione avvenuta prima del previsto, il comparto potrebbe crescere ancora, grazie a nuove tecnologie come l’addressable tv, il digital out of home e l’audio digitale. La domanda è: quante di queste inventory verranno vendute effettivamente in programmatic? In Italia, infatti, è ancora molto forte la vendita diretta degli spazi, attraverso contratti e strette di mano», spiega Andrea Lamperti, Direttore dell’Osservatorio Internet Media, a DailyNet. I social network (YouTube escluso), invece, «assorbono in Italia 650 milioni di euro di raccolta pubblicitaria, che rappresenta il 35% della display. In generale, gli OTT pesano per il 75% sull’intero mercato pubblicitario online», aggiunge Lamperti.
Le data company in Italia
La distanza dagli USA, dove gli investimenti sui dati superano i 19 miliardi di dollari (+17% yoy, 12% del comparto digital nel 2018), è ancora molto grande, ma le aziende italiane hanno aperto gli occhi e considerano alto l’interesse verso l’argomento. Addirittura l’82% dei responsabili interpellati dal PoliMi ha dichiarato un largo grado di commitment verso i dati, ma solo un terzo di loro ha messo in piedi un team dedicato. Le 28 strutture contattate per la ricerca - su un totale di 30-35 operanti sul suolo italiano - lavorano prevalentemente come data provider & technologies (57%, mentre solo il 43% offre tecnologie di buying. Le tipologie di dati più diffuse sono rispettivamente: sociodemo (93%), interesse (93%), behaviour (89%), purchase (71%) geolocal (71%), psicografici (39%) e analytics instore (25%). Per quanto riguarda la modalità di raccolta, invece, gli italiani prediligono i dati di seconda parte, ottenuti dalle partnership (89%), per ottenere una scalabilità maggiore rispetto a quelli di prima parte (61%). Dai data exchange proviene solo il 14% del totale.
«Questo dimostra che i dati locali sono preferiti a quelli internazionali, in quanto più precisi e tagliati sugli utenti dello specifico mercato. È importante poi la certificazione, che significa qualità, e la capacità di misurare i risultati ottenuti dall’azionamenti degli stessi dati. Viene a mancare, in ultimo, la competizione tra deterministico e probabilistico, in quanto molti utenti inseriscono dati casuali al momento di compilare i form con le proprie informazioni», continua Lamperti.
“Oggi è in atto una vera e propria rivoluzione che vede le cosiddette aziende unicorno, ossia quelle digitalmente più evolute, prevalere sulle imprese tradizionali e analogiche. Un successo determinato da un nuovo modello di business capace di comprendere e sfruttare non solo tecnologie innovative e altamente performanti come l’AI ma anche il significato e il valore dell’utilizzo di dati online e di alta qualità nelle strategie marketing”, dichiara Ilaria Zampori, responsabile di Quantcast in Italia.
Misurazioni
In questo scenario, gli operatori sono chiamati a un tiro alla fune con le istituzioni, che dopo aver assistito ai goffi tentativi di autoregolamentazione del mercato in tutto il mondo stanno intervenendo per fissare paletti e regole a tutela di tutti: aziende, economie e utenti. «Siamo di fronte a un paradosso. Sul mercato dei dati in molti paesi si cercano efficienza e economie di scala attraverso nuove forme partnership, soprattutto tra gli editori, ma i regolatori, molto focalizzati sulla tutela del consumatore, rendono più difficile tale condivisione. Bisognerebbe trovare un giusto punto equilibrio per rafforzare il fondamentale controllo dei dati da parte del consumatore e fare in modo che le scelte individuali in termini di privacy siano rispettate e condivise dal maggior numero di operatori - spiega Fabrizio Angelini, ceo di Sensemakers -. Tale interventismo è anche frutto del fatto che il comparto non è riuscito a definire standard condivisi, si è creata forte concentrazione verso un numero finito di realtà che hanno mantenuto la loro autoreferenzialità su molte misurazioni», aggiunge.
In questa situazione, l’emergere del digitale come media dai tentacoli che abbracciano altri media, ha suscitato l’esigenza di misurazioni crossplatform: «Il 63% dei centri media a livello globale acquista in modo congiunto tv e video on-line, è diventato necessario costruire misurazioni che analizzino più mezzi insieme». Perché sia efficace il coordinamento dei mezzi, però, bisogna ridurre la complessità del sistema: «Le campagne in Italia nello scorso anno sono state 1,4 milioni, da parte di 211.000 brand che hanno proposto 10,8 milioni di formati creativi collaborando con migliaia di mediatori. I principali publisher hanno collaborato con oltre 80 mediatori che, inevitabilmente hanno eroso la redditività».
Se è già così complicato il digital, figurarsi l’integrazione della misurazione con la tv, dove molti paesi adottano standard e approcci diversi già a partire delle definizioni. Inoltre, si stanno ristabilendo le gerarchie delle metriche che assegnano valore a una destinazione online: la reach and frequency sta lasciando il posto all’attenzione e all’engagement. «Avere moltissimi utenti è poco significativo se non si riesce a conquistare la loro attenzione». Secondo i dati portati da Angelini, tra le TOP 100 properties sono 64 quelle che superano il 10% di audience reach sulla popolazione mobile - ma solo 10 quelle che superano la soglia dell’1% del totale del tempo speso
L’avvento della blockchain
Mentre il segmento è alle prese con queste complicazioni, appare l’elemento di disruption: la blockchain. Utile in una serie potenzialmente illimitata di operazioni, spalmate su segmenti completamente diversi, tra cui i media, al quarto posto nella classifica di adozione a pari merito con la categoria Agri-food (5%). Nello specifico, sia l’advertising – in cui è impiegata nell’user engagement e per la media transparency «quando le operazioni digitali possono essere salvate su un registro condiviso accessibile a tutti gli attori coinvolti», spiega Valeria Portale, Direttore dell’Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger dei Politecnico di Milano -, sia i content - per la difesa del copyright e proprietà intellettuale, per il crowdsourcing e per difendersi dalle fake news -, sia i social network ne sono coinvolti. «L’adozione sempre maggiore di questa tecnologia porterà a rivoluzioni nel campo digitale. Ad esempio potremmo raggiungere un punto in cui l’utente sarà proprietario e venditore dei suoi stessi dati, venendo remunerato per entrare a contatto con un’inserzione. Va da sé che i modelli di business degli operatori dovranno essere rivisti», aggiunge Portale.