Ottima affluenza di pubblico al convegno organizzato dall’Osservatorio sul Branded Entertainment: strumenti, ricette, consigli di un mercato che oltre al prossimo futuro si sta già muovendo con profitto nel presente
Si stava meglio quando si stava peggio, la mitologica massima che da sempre si rifà viva, insieme ai suoi protagonisti, nostalgici dei bei tempi che furono. Ed è allora che si alzano gli occhi al cielo, si chiede pietà, si manifesta disappunto, magari qualcuno alza anche la voce, si pongono domande dal sapore retorico, tipo: “Come puoi lamentarti di fronte al progresso?!”. Succede anche nel campo del marketing, della comunicazione, della pubblicità: oggi possiamo far leva su una strumentazione che solo due lustri orsono non esisteva, qualcuno la immaginava, ma intanto tutto appariva più improvvisato rispetto al 2019; minore targhetizzazione, meno profilazioni, magari non proprio un terno al lotto, ma insomma. Oggi abbiamo i Data e il contenuto può giovarsene, può scorrere più facilmente, può mirare la bersaglio grosso e anche meno grande, può rischiare. O no?
Di cosa parliamo?
C’è una pagina social, “Milano sparita e da ricordare”, foto in bianco e nero e un diluvio di commenti sulla bellezza di una città sfocata nei ricordi confrontata all’orribile metropoli odierna dove tutto funziona ma chi se ne frega, troppe linee metropolitane, hanno anche eliminato il fioraio che incontravo quando andavo all’asilo nel 1952! Ma quindi se qualcosa matura, si evolve, acquista valore e diventa più agevole o è vero il contrario? OBE, che come osservatorio si guarda intorno e fa ogni volta il punto della situazione, organizza un summit per certificare lo stato di grazia della nuova comunicazione, sempre più propensa al branded content-entertainment. Succede a Milano, un martedì mattina di metà maggio e… si blocca la metropolitana, spariscono i taxi e i ritardi si accumulano. Ma poi, finalmente si abbassano le luci e in Fondazione Feltrinelli si comincia a discutere, perché sale sul palco il presidente di OBE, Laura Corbetta che dice: «Di cosa parliamo? Branded Content? Entertainment? Entrambi?».
Tattica o strategica?
Siamo solo all’inizio, ma un sospetto viene subito a galla: abbiamo di fronte uno spartito sempre più completo, ma non è un pulsante che crea automaticamente il risultato, tutt’altro, occorre studiare, conoscere, interpretare una materia di fatto sempre presente ma oggi inedita, perché il tranello è sempre dietro l’angolo. «Il tema centrale fu colto tanti anni fa: creare contenuti, impattanti, ingaggianti, ma anche funzionali a quello che si vuole promuovere», continua Laura Corbetta. «Un limite, almeno qui in Italia, è considerare l’attività di branded content come qualcosa di tattico, quando invece dovrebbe essere strategico, far parte del gioco di squadra. Lo storytelling deve essere connesso con il brand, per far sì che si possa poi giungere a una crescita organica del singolo progetto, che abbia connessioni emotive durature. Un contenuto originale, non un messaggio mascherato. Deve essere rilevante e deve far parte di un progetto di comunicazione integrata, che possa funzionare su qualsiasi mezzo. Succede, infatti, che ci si trovi di fronte a grossi investimenti che però vengono dirottati magari solo su un media, proprio perché manca una dimensione strategica, un’idea condivisa e veicolabile ovunque».
In Rete?
Ma dove vanno a finire tutti questi soldi? Il lettore l’avrà capito, si tratta proprio di lei, l’eterna televisione. Ma il web non demorde attira nella sua rete non pochi denari. A confermarlo è una ricerca, presentata in collaborazione con Doxa e Annalect, che ha sottolineato l’importanza del video nelle strategie di Branded Entertainment. Ma non tutto fila liscio: su 149 video analizzati e suddivisi in 8 categorie, solo il 42% ha dimostrato di saperla lunga in fatto di performance. Come mai? Sempre la solita storia: obiettivi poco chiari e storytelling debole quando non povero. Anche su internet occorre coinvolgere nel rispetto di Kpi.
I numeri di ieri, oggi e domani
Ritornano le solite domande: come si valuta l’efficacia? Come si lavora sul branded? La matematica pare che funzioni ancora, troverete anche in questo campo qualche terrapiattista sostenitore del 2+2 uguale 10, ma intanto gli ultimi dati forniti da Havas Media parlano chiaro: la percentuale di penetrazione globale del Branded è intorno al 6%, ma con percentuali di crescita del 14%. In Italia siamo passati dai 170 milioni investiti nel 2014 ai 444 milioni dell’altro giorno, con un avanzamento ben oltre la stima del 5%. L’approccio tattico si dice in giro stia calando, il 92% degli addetti ai lavori si dice soddisfatto e il 36% dichiara di aver centrato pienamente gli obiettivi. Nel 2019 la crescita sarà del 14%, oltre i 500 milioni.
Bruno Bertelli
Perché?
«Ai millennials la pubblicità non piace, la trovano noiosa», dice il Ceo di Publicis Italia Bruno Bertelli. Mica per altro proliferano gli adblock, vien da aggiungere. «Siamo circondati da una quantità di intrattenimento non pubblicitario e l’adv ne soffre. Che fare? Magari andare oltre la componente razionale e attivare la parte ludica. Non c’è dubbio che un messaggio venga catturato e immagazzinato perché risulta divertente. A questo dovrebbe mirare lo storytelling, però occorre saperlo maneggiare. Perché è un attimo che si perde il fulcro della questione e si smarrisce la consistency, ossia si tradisce lo spirito del marchio che si sta promuovendo». Ci sono delle scuole dalle quali escono promossi a pieni voti specialisti che poi si adoperano nella scrittura di libri, programmi tv, opere teatrali, cinema.
Una storia è costruita in tre parti e lo stesso può esser rapportato all’adv. «Lo storytelling efficace segue delle regole precise: il setup, ossia l’entrata in scena del protagonista cui potersi affezionare; l’evoluzione, che deve essere anche difficile, tra contrasti e controversie; il finale che risolve tutto. Uno schema anche pubblicitario: belief, tension, proposition. L’utente, come accade anche in altri media, nella pubblicità vuole leggere una storia, ben precisa, la storia di quel brand.
Una comunicazione funziona anche e soprattutto perché le aspettative vengono rispettate. Un classico esempio è quello di Nike: mi piacerebbe fare esercizio, ma fuori piove, magari più tardi, i dubbi che si fanno largo, ma poi interviene Nike, “alzati e fallo”, ossia “Just Do It”. Troppo spesso ci si dimentica di chiedersi il perché, invece il Why è fondamentale. Una grande azienda come Red Bull, che ha fatto dello storytelling una filosofia, ultimamente lo ha scordato non poche volte. Why mette le cose in chiaro su quale sia il focus dell’azienda, quel Perché che determina alla fine una maggior consistenza nel messaggio. Tra i clienti di Publicis c’è Heineken, marchio che considera l’intrattenimento molto importante, eppure si stava perdendo di vista il focus e le campagne somigliavano a semplici attività di sponsoring. Siamo tornati sui nostri passi e l’ultima campagna internazionale mette in evidenza una serie di momenti tipici di una partita di pallone, i goal certo, ma soprattutto quello che accade allo spettatore. Per fare un altro esempio: Renault non parte mai dalla macchina, ma dall’utente, evidenziando così i valori del marchio.
La ricetta
Insomma, esiste o no una ricetta adeguata per far sì che si possa parlare di un Branded Content-Entertainment adeguato appropriato, funzionale, creativo e pure divertente? Forse bisognerebbe prendere spunto proprio da chi ha rosicato parte del terreno sul quale poggi la pubblicità: lo streaming, i social, da YouTube a Netflix. Si parlava di attese rispettate, ma non bisogna dimenticare l’unicità. L’inserimento di un elemento anche piccolo, come una scoperta, un di più. Sembrerebbe quasi un gioco di prestigio, ma senza esagerare, perché poi si sbanda, anche se dietro, a tenere il timone ci sono degli autentici maestri. Vengono subito proposti due esempi che lasciano di stucco il pubblico ma aiutano a comprendere le difficoltà e le abilità che stanno dietro il Branded: la campagna targata Turkish Airlines, e sembra di assistere a un film con trama spionistica, divertente, avvincente, diretto da Ridley Scott! Completamente sbagliato. Scott e tutta la produzione hanno smarrito la strada, il focus, il brand; di contro una recente campagna Mercedes, anch’essa molto cinematografica coglie il senso. Viene chiesto alla platea di alzare la mano ed esprimere un parere, si azzardano in cinque, la conferma che non sia facile. Nel proseguimento della giornata, atteso e applaudito intervento di Alessandro Baricco, con una masterclass storytelling patrocinata da FUSE.
Gli interventi
H-FARM
H-FARM e il Branded Content-Entertainment, un binomio che potrebbe diventare celebre. E infatti la struttura si presenta in abito elegante e introduce, insieme a Verti, marchio assicurativo, e suo cliente da tempo, con il primo esempio di Branded Podcast. A rispondere ci pensano Giorgio Sacconi, Digital Marketing Director, e Serena Maggioni, Head of Brand Campaigns.
Domanda a bruciapelo: cosa rappresenta il Podcast presentato al summit? «Un messaggio forte, una sorta di presa di posizione, un po’ come dire che non intendiamo retrocedere nei confronti dell’idea che non si possano progettare e realizzare messaggi belli e ingaggianti, funzionali e divertenti», risponde Sacconi.
Anna Gavazzi
Tempo fa, a tu per tu con il direttore di OBE, Anna Gavazzi, era spuntato il ricordo di un’Italia pubblicitaria che si muoveva su tragitti per così dire proto Branded Content-Entertainment, quelli del Carosello. Una visione corretta o una memoria distorta?
«Ci sono dei rimandi, ma riguardo quel format ho anche un’altra idea: la sua sparizione fu dovuta alla nascita del Turbo Consumismo. Ma un legame esiste ed è come se oggi volessimo dire “Riprendiamoci lo spazio”».
Ma è veramente possibile, soprattutto qui da noi, in Italia, coinvolgere e al tempo stesso essere didattici?
«Certo, ma non con il modello di storytelling proposto durante il Summit, anche quello mi sembra ormai obsoleto, sorpassato, in crisi».
Sì, ma le aziende ci stanno? Sono propense verso quello che può apparire come un rischio, quasi un salto nel vuoto?
«Non siamo ancora pronti. Però c’è il fattore tecnologia a fare da chioccia: abbiamo l’AI, la presenza sempre più folta dei dati, l’opportunità di controllare che la strada sia quella giusta, suffragata dai numeri. Infatti, anche noi come H-FARM investiamo in tecnologia e in personale che sappia utilizzarla. Poi, chiaro, si tratta anche di una sfida culturale».
Forse il rischio è considerare il Branded come un’attività a sé stante…
«E così non deve diventare. Il podcast, per utilizzare l’esempio più fresco, non rimane lì, da solo, ma diventa attivatore di ulteriori sinergie. Un approccio olistico».
Si dice che l’audio sia la nuova frontiera
«Èd è vero. Abbiamo sviluppato il video, ora faremo lo stesso con l’audio. Rappresenta il nuovo approdo, se si pensa alla diffusione degli smart speakers o degli stessi podcast. La voce, dopotutto, è meno dispersiva, è un canale più stretto e più performante rispetto al video, crea meno distrazioni, costruisce mondi interni».
Intanto H-FARM non accenna a fermarsi, così si dice in giro
«Cresciamo in doppia cifra da cinque anni», specifica Serena Maggioni. «Al momento siamo alla ricerca di 20 persone nuove da arruolare nel marketing.».
E la crisi, la recessione?
«Ne siamo coscienti, sta arrivando, in un modo o nell’altro, ma come spesso si racconta, potrebbe anche rivelarsi un’opportunità, per cambiare rotta. E forse le realtà più piccole, più settoriali potrebbero pure beneficiarne».
Laura Corbetta
C’è una parola che ricorre, magari non al bar sotto casa, ma in ambito adv-marketing la ritrovi un po’ ovunque: integrazione. Poi c’è anche Laura Corbetta, la founder di YAM112003 che al Summit di OBE fa gli onori di casa anche perché ne è il presidente, che mira sempre più su un approccio integrato «Integrare in comunicazione è la regola, deve esserlo. E la tecnologia ci viene anche incontro, un dato acquisito. Il tema però è un altro: capire cosa si voglia raggiungere, l’obiettivo, il focus. Messo questo elemento centrale in risalto, possiamo poi pensare a come comunicarlo nel miglior modo, anche e soprattutto con azioni di branded content. Con la coscienza che i media oggi sono diluiti, c’è una regia unica, contornata da specialist diversi. In campo pubblicitario a ritirare un premio possono anche presentarsi in 10».
Laura Corbetta
Integrazione, l’unione fa la forza, ma poi le aziende non ci credono sempre e i soldi finiscono…
«O per meglio dire, vengono spostati su un solo mezzo. La tv è sempre determinante, non ci sono dubbi, perché posiziona bene ed è immediata, ma non poi deve essere integrata da altri mezzi, da ulteriori azioni»
Qualche esempio televisivo di Branded che sta funzionando?
«X-Factor da questo punto di vista è ormai un classico. Come YAM112003 abbiamo prodotto Upgrade, ideato e condotto da Giulio Golia, in collaborazione con Unieuro e Samsung, su Italia 1 e ha funzionato».
C’è un segreto per costruire una buona azione di Branded?
«Occorre sintonizzarsi sull’utente in modalità pull, cercare di interpretare le sue urgenze, le richieste, i trend che cambiano di volta in volta, il contrario dell’imposizione, insomma».
Però, intanto, si assiste a una massificazione dei gusti, o no?
«Senza dubbio, ma l’operatore cosa deve fare? Scovare un pertugio, attendere che si apra una breccia, quasi anticipare le mosse del consumatore».
Quali settori si sono aperti con più decisione al Branded?
«Il bancario-assicurativo, noi con Banca Intesa abbiamo costruito dei progetti integrati che hanno portato risultati notevoli. Poi il Food & Beverage, anche perché i media sono stracolmi di immagini legate al mondo del cibo e della cucina. E non dimentichiamo ovviamente l’Automotive».