Autore: Redazione
27/04/2017

Centromarca: l’Osservatorio di Pavia mette in evidenza i crescenti pregiudizi antindustriali in tv

Un’indagine commissionata dall’associazione di cui è presidente e direttore generale Luigi Bordoni all’istituto di ricerca ha svelato come la produzione industriale dei beni di largo consumo sia sempre più penalizzata all’interno della rappresentazione televisiva

Centromarca: l’Osservatorio di Pavia mette in evidenza i crescenti pregiudizi antindustriali in tv

Tra iniziative parlamentari mirate a vietare la pubblicizzazione in tv durante le ore dei pasti di cibi e bevande contenenti alti livelli di grassi e zuccheri, sali liberi e, naturalmente, olio di palma, tentativi di introdurre tasse sulle bevande gassate e sempre più frequenti programmi dedicati all’alimentazione con forti pregiudizi e senza possibilità di replica, sembra proprio che stia tornando in auge quella che Il Foglio, in un articolo pubblicato due giorni fa, ha definito una vera e propria “ossessione antindustriale”. Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa fa riferimento a uno studio di Centromarca che ha svelato contenuti e caratteristiche di questo pregiudizio. L’associazione di cui è presidente e direttore generale Luigi Bordoni ha tra gli asset storici della sua mission proprio l’attenzione agli aspetti informativi e all’immagine delle aziende che ne fanno parte e, in particolare, di tutte quelle che producono beni di largo consumo, spesso soggette ad attacchi mediatici gratuiti, poco motivati e che non lasciano spazio a repliche. Il monitoraggio cui accenna Il Foglio è stato, quindi, commissionato da Centromarca all’Osservatorio di Pavia - il noto istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media - ed è intitolato: “La produzione industriale dei beni di largo consumo nella rappresentazione televisiva”. DailyMedia ha potuto visionarlo e ne riporta alcuni stralci, utili anche per ulteriori approfondimenti, anche perché le aziende interessate vedono, tra l’altro, vanificati o messi a rischio ingenti investimenti in comunicazione sostenuti per i posizionamenti e i plus dei loro prodotti.

Le evidenze dell’indagine

“Il monitoraggio permanente e l’analisi costante di una molteplicità di programmi televisivi dedicati ai temi dell’industria di largo consumo, con particolare riferimento a quella alimentare ma non solo, induce a delineare un quadro preciso e rilevare delle tendenze ben definite, fatte pur le debite eccezioni - dice la ricerca -. Nello specifico, si ravvisa un atteggiamento di pregiudizio nei confronti dell’industria e si coglie una predominanza di fattori culturali soggettivi degli autori, che finiscono per pre-orientare e pre-determinare le tesi e i contenuti presenti nei programmi”. Vi sono in proposito alcuni tratti molto ricorrenti: la “natura” è sempre buona in sé, l’intervento trasformativo (industria) la “corrompe”. In linea con il punto precedente, una visione naif del mondo agricolo e della piccola impresa e una“apocalittica” del mondo industriale.

Il modello etico e culturale degli autori predetermina il contesto, all’interno del quale ogni evento legato alla produzione industriale viene ricondotto, subendone le connotazioni negative, a prescindere dalla correttezza o meno delle argomentazioni delle critiche. Proprio le argomentazioni delle critiche avanzate al prodotto industriale, all’interno di un contesto predeterminato, sono molto spesso accompagnate da elementi di sussidio, che possono compromettere l’obiettivo di spiegare e informare, che rappresenta la mission di molti di questi programmi: presenza di musiche suggestive (sbeffeggianti o drammatiche quando si parla di industria; liriche e rassicuranti quando al centro spiccano contadini e artigiani); associazioni di immagini (fumi, insetti, sporcizia per l’industria; igiene e “colori della natura” per gli altri); accostamento impertinente di termini (chimica, veleni e cancro per l’industria; natura, salute e benefici per gli altri) e di eventi (incidenti, ma solo quelli industriali); montaggio di interviste seguite da commenti (l’ultima parola, spesso una battuta dell’autore, annulla e rende vano, se non ridicolo, quanto detto dall’intervistato, se esponente dell’industria; uso di stereotipi (grande, multinazionale = cattivo; piccolo, artigiano, contadino = buono; bio = qualità; chimica = inquinamento = cancro; naturale = salutare); stili retorici predominanti su quelli logico-argomentativi, ecc.

L’esigenza di uno stile narrativo (retorica, finalizzata alla persuasione), dettata da logiche interne  ai media, mal si accorda con l’esigenza di uno argomentativo (logica, finalizzata alla conoscenza), necessaria quando si tratta di informare attraverso spiegazione di fatti e comportamenti. “Da un lato - prosegue la ricerca -, tali elementi rischiano di produrre un danno, prima ancora che alle singole aziende, di tipo culturale, in quanto poco aderenti alla realtà attuale e componenti un quadro complessivo dell’industria molto discutibile. Dall’altro, rischiano di creare dei danni d’immagine alle aziende attraverso una parziale e molto soggettiva analisi dei difetti che possono esservi, una rappresentazione frutto più dell’effetto di giochi di parole, musiche e immagini, piuttosto che di un'analisi argomentata secondo logica e fatti”. Avvolgendo i prodotti di connotazioni positive e negative, sulla base di operazioni fortemente connesse alla soggettività degli autori, rispettivamente per quelli “artigianali” (aziende di piccole dimensioni, mondo bio, commercio equo e solidale, distribuzione fuori dai classici canali Gdo, mercatini e bancarelle ecc.) e quelli industriali - aggiunge l’Osservatorio di Pavia - i programmi in oggetto finiscono per compiere una sorta di messaggio pubblicitario comparativo, scorretto nei presupposti, nei contenuti e anche sotto il profilo degli effetti, tra cui quello di alterare la concorrenza. 

L’obiettivo di informare i cittadini sul mondo in cui viviamo, in tutte le sue sfaccettature, è lodevole per i programmi di servizio pubblico, in quanto svolgono un’indispensabile funzione pubblica di educazione e conoscenza; il rischio che si intravede è però quello di scivolare verso una sorta di “populismo economico”, un atteggiamento che si traduce nell’investimento di maggiori risorse nel tono e nel volume delle critiche piuttosto che nello stile logico delle argomentazioni. Più precisamente, sempre secondo l’indagine: a finire “sotto inchiesta” sono sempre i prodotti industriali, il confezionato, la marca, che hanno l’onere della prova di dimostrare di essere “puliti”; al contrario, sono sempre “al di sopra di ogni sospetto”, e pertanto esulano da ogni necessità di “indagine”, i prodotti artigianali, il fresco, e molti di quelli che passano attraverso canali alternativi rispetto alla grande distribuzione. “Ai primi si imputa tutto, il contenuto di sostanze pericolose in sé, grassi, zuccheri, l’incremento di obesi nel mondo, gli effetti dei guasti negli impianti, dell’interruzione della catena del freddo, cattiva informazione, certificazioni di qualità e sostenibilità (economica, sociale e ambientale) inattendibili e ipocritamente strumentali, comportamenti immorali e ai limiti del lecito e talvolta oltre, fino anche ciò che è solo potenzialmente pericoloso pur se altamente improbabile (sviluppo di batteri e altre  sostanze nocive, ecc.). Agli altri, sembra non possa capitare mai nulla di simile e non si ritiene di doverne mai indagare i livelli di igiene, le modalità di produzione, conservazione e trasporto; su di essi non grava mai alcun sospetto, di essi sembra che nessuna ricerca scientifica si sia mai occupata; i prodotti non industriali sono presi come termine di confronto, una sorta di benchmark, il modello ideale di prodotto, ineguagliabile da parte dell’industria”.