Durante il panel “Block You: Why World Class Creativity Will Obliterate Ad Blocking”, discusse le tematiche relative agli strumenti di blocco adv
Il Festival della Creatività di Cannes non è uguale agli altri appuntamenti. Il Palais des Festivals et des Congrès è in riva al mare, tra le spiagge e il porto trafficato di yacht. Guardano da entrambi i lati non si può fare a meno di notare i loghi delle agenzie e dei player dell’advertising, che hanno brandizzato imbarcazioni e lidi per celebrare uno degli incontri internazionali tra pubblicitari più famosi. Se non il più famoso. La liaison tra una sdraio sulla sabbia e una poltrona di vimini davanti a un tavolino a poppa, tra il luccichio del mare e gli odori dei ristoranti che affollano la croisette, è la tranquillità, necessaria per generare quelle idee che fanno grandi le campagne. Ma purtroppo, tra agenzie ed editori, ci sono anche elementi di turbamento. Come l’ad blocking, con la sua capacità di oscurare le ads e gettare forti ombre sul settore. Stigmatizzarlo e proporne una soluzione: è questo il compito che si sono posti Randall Rothenberg, presidente e ceo di IAB, Mark Thompson, ceo del New York Times, e Jess Greenwood, vice-presidente content e partnership di R/GA, nel panel “Block You: Why World Class Creativity Will Obliterate Ad Blocking”.
Ricordarsi chi sono gli utenti
“Gli ad blocker fanno profitto spacciandosi per strumenti a difesa degli utenti. Sebbene queste tecnologie siano ai limiti dell’onestà, è anche vero che il mondo della pubblicità digitale si è dimenticato che gli utenti non sono loro partner ma sono semplici persone che vogliono fruire di un contenuto. Quando viene loro proposto uno strumento per rendere meno stressante la loro esperienza online, è comprensibile la loro decisione di adottarlo, e come conseguenza il modello dell’adv digitale rischia di trovarsi in ginocchio. Scongiurare questa eventualità è fondamentale, e per questo bisogna pensare a una pubblicità di nuova generazione, che gli utenti percepiscano come utile. Devono trovarsi nella situazione in cui, scegliendo di utilizzare un ad blocker, si rendono conto di negarsi un servizio che gli potrebbe servire”, ha esordito Rothenberg.
Il conto della pubblicità intrusiva lo pagano tutti
“Non tutti i player sono ugualmente colpevoli di questo degrado della user experience. Alcuni siti hanno spalancato la porta a inserzioni intrusive distruggendo la fluidità di navigazione. A pagarne, però, è tutto il settore. Il New York Times ha aperto nuove unit dedicate allo sviluppo dell’esperienza utente per gestire al meglio questa potenziale problematica. Credo che i branded content siano un elemento fondamentale per il display advertising, una modalità su cui puntiamo molto e che mettiamo spesso in atto. Certo, dobbiamo essere sicuri che gli utenti capiscano come funziona il nostro business, in modo da comprendere il danno che arrecano gli ad blocker al sistema intero. Il New York Times ha due fonti di revenue principali: l’abbonamento e l’advertising. Sebbene abbiamo il numero più alto di sottoscrizioni al mondo, gran parte delle nostre entrate proviene dall’advertising e tecnologie come gli ad blocker potrebbero metterci in crisi” commenta Thompson.
IAB, il programma D.E.A.L per combattere l’ad blocking
A cui Rothenberg ha replicato: “è per questo che abbiamo lanciato il programma D.E.A.L.. Significa, Detect, Explain, Ask e Limit, ed è esattamente il processo che richiediamo per rendere chiaro all’utenza il danno provocato dall’utilizzo di tali tecnologie. Consiste fondamentalmente nello scoprire chi ha un ad blocker installato, spiegargli perché dovrebbe disattivarlo, chiedergli di farlo e, a quel punto, consentire al publisher di limitarne gli accessi sulla sua property”. “Abbiamo riscontrato da diverse indagini che gli utenti, quando vengono a conoscenza del meccanismo innescato dall’utilizzo di tali strumenti, sono propensi a non installarli se i contenuti proposti sono di qualità. Dobbiamo opporci e combattere le pratiche tecnologiche sleali e ingannevoli adoperate dagli sviluppatori di ad blocker” conclude Thompson.
Colmare il deficit creativo dell’advertising
Il ragionamento avanzato da Greenwood prende il via da un punto di partenza quasi opposto: “Chi blocchiamo di solito? Chi ci assilla, chi ignora la nostra privacy, chi non è rispettoso. Lo stesso fanno gli utenti con le ads. Il 60% dei click sulle inserzioni, da mobile, sono frutto di un tap errato. Ed è un dato addirittura sorprendente per quanto sia basso. Si parla tanto di ridisegnare i banner, di creare altri formati. Ma poi ai contenuti non viene data la stessa attenzione, e diventano carenti a livello qualitativo. Intanto i social network stanno diventando piattaforme sempre più interessanti, non solo per la loro incredibile capacità di raggiungere i target. Offrono infatti dei formati che stimolano la creatività e l’engagement. Per scrollarsi il problema “ad blocker” di dosso è necessario che tutta la industry collabori a creare una creatività migliore, dei formati più incisivi e meno invasivi, e modo efficaci per raggiungere i target. Tra il giusto e il gratis, gli utenti sceglieranno sempre il gratis. Ed è importante non abbassarsi a implorare la gente a disattivare gli strumenti di blocco pubblicitario, perché sarebbe l’inizio della fine”. “In realtà, secondo me, c’è un grosso deficit creativo nell’advertising, e dobbiamo pensare a raffinare la psicologia più che la tecnologia” ribatte Thompson.