Influencer Marketing: il comparto italiano raggiungerà i 241 milioni di euro nel 2019
Da quanto è emerso durante l’evento “OBE Le regole del gioco”, nel periodo dal 2017 a quest’anno si registrerà una crescita del 131%, guidata da un aumento di brand disposti a utilizzare questa leva di marketing e da un approccio molto più strategico e integrato a queste attività. L’intervista alla d.g. Anna Gavazzi

Anna Gavazzi, d.g. di OBE
Il mercato dei branded content raggiungerà i 412 miliardi di dollari nel 2021. Nella crescita del segmento recita un ruolo di importanza sempre maggiore l’influencer marketing, che strategicamente rappresenta il punto di contatto tra la comunicazione tesa alla conoscenza del brand e quella che mira all’engagement. La maggior parte dei brand non alloca a queste attività più del 10% del proprio budget per la comunicazione, ma la crescita in tutte le realtà europee del consumo di contenuti su YouTube (dove l’Italia fa la voce grossa con un +32% yoy), di pari passo con un’affermazione della personalità web nel ruolo di influencer - contro brand e media company (in Italia il 76% degli influencer sono user, il 16% media company, il resto brand) - delinea un ecosistema pieno di opportunità da sfruttare.
L’opportunità italiana
Focalizzando la lente solo sul mercato italiano - attraverso i dati presentati da Publicis Media - , l’economia attorno all’influencer marketing sta iniziando a farsi notevole. I 104 milioni di euro investiti nel 2017 sono diventati 180 nel 2018, e raggiungeranno i 241 nel 2019, quando rappresenteranno l’8% del totale dei budget digital. In due anni, la spesa crescerà del 131%. «Aumentano i brand disposti ad usare questa leva di marketing, e le aziende investono sempre più in questo strumento. Non si può ancora dire, però, se l’aumento dei budget sia legato all’efficacia, a causa della difficoltà nel misurarla. Alcuni brand che lo hanno fatto, però, sono rimasti soddisfatti dei risultati raggiunti. È evidente, comunque, che l’influencer marketing è il vero trend del momento», ha dichiarato Anna Vitiello, Chief Experience Officer di Fuse (Omnicom Media Group) a margine dell’evento “OBE Le regole del gioco”.
Gli influencer non sono tutti uguali
A dividersi la torta ci sono diverse categorie di influencer, ma le fette sono tendenzialmente piuttosto equilibrate: le attivazioni sui profili dei vip sono il 23%, quelle sulle personalità verticali il 33%, nelle community del 18% e tra i micro-influencer del 26%. È Instagram, più di tutti, ad assorbire queste iniziative (65%, con una crescita del 12% sul 2017), nettamente in vantaggio su Facebook (21%) e YouTube (10%). L’ago della bilancia per una scelta efficace e consapevole è l’approccio al contenuto. Anche in questo caso gli influencer si dividono in tipologie: «Ci sono, ad esempio, i “realfluencer” sono le personalità con reali competenze su uno o più argomenti, o i “wokefluencer”, che sono profili con valori sociali ben definiti e sono molto richiesti in quanto veicolo per posizionare un brand che sposa le loro idee. Allo stesso tempo esiste una dicotomia tra “creators”, con competenze creative e autorali e “amplificator”, personaggi dalla fanbase molto rilevante ma meno preparati sulla produzione per il marketing. A seconda delle necessità e delle attività da mettere in campo, cambia il modo in cui un brand si rapporta a ognuno di questi due gruppi. La cosa fondamentale resta sapere come lavorano e abbracciare il loro linguaggio quanto i format che propongono, perché l’originalità della comunicazione instaurata con la community di riferimento è il vero plus che possono dare i creator. Con gli amplificator invece bisogna lavorare affiancando autori e costruire insieme il messaggio», ha spiegato Anna Gavazzi, Direttore Generale di OBE.
Obiettivi di marketing
La considerazione del loro posto all’interno di una strategia è cambiata con la comprensione delle loro capacità specifiche. «Se prima gli influencer venivano utilizzati in maniera tattica, ora sono parte integrante della strategia. Molti brand scelgono di usarli come brand ambassador, con rapporti continuativi e importanti, per progetti di medio e lungo termine. Diventano dunque portavoce del marchio, a cui vengono associati gli stessi valori da loro promossi», dice Vitiello. Insieme alla funzione strategica, non è uguale nemmeno la complessità dell’ambiente in cui operano. Ad esempio «a supporto di un influencer non basta più un PR manager, i contenuti infatti sono distribuiti su diversi media, e la stessa personalità del web viene scelta tenendo in considerazione una serie di criteri molti complessi, che riguardano anche la corrispondenza tra ciò che fa e come lo fa, con gli obiettivi di marketing e gli asset di posizionamento del brand», aggiunge. In una rivoluzione tale, gli strumenti di valutazione dell’investimento, o di misurazione che dir si voglia, non potevano restare immutati. «Le metriche disponibili sono di due tipi: quantitative e qualitative. Le prime sono misurabili e riguardano reach, impression ed engagement rate. Quest’ultima voce è molto importante perché indica le potenziali interazioni che un brand potrebbe raggiungere se scegliesse quell’influencer. Quelle qualitative invece sono più legate al tipo di argomento trattato e alla costruzione di una credibilità nel parlarne. Ma è incluso in questa categoria anche il sentiment, che si ottiene analizzando le reazioni ai commenti e l’umore con cui avvengono. Verifiche come il brand lift possono essere disposte se prima è stata condotta un’analisi pre campagna, e se l’attività di influencer marketing è inserita in un contesto di campagna più ampio», ha concluso Vitiello.