Autore: Redazione
25/05/2018

PHD: italiani e privacy, il 62% è preoccupato, oltre il 70% dà un valore commerciale ai propri dati

L’agenzia media del gruppo OMG guidata da Alessandro Lacovara ha presentato ieri un’indagine sull’atteggiamento rispetto ai dati sensibili, alla vigilia dell’entrata in vigore del GDPR europeo

PHD: italiani e privacy, il 62% è preoccupato, oltre il 70% dà un valore commerciale ai propri dati

di Carole Masala

Oggi entra in vigore in tutta Europa il GDPR (General Data Protection Regulation), il nuovo regolamento sulla protezione dei dati che norma la raccolta e la gestione dei dati personali. A parte le principali piattaforme digitali che hanno cominciato a sensibilizzare gli utenti già da qualche settimana, la maggior parte delle aziende che raccolgono dati sensibili si sono mosse solo da qualche giorno, inondando le email degli italiani con le loro informative. Notoriamente, è molto difficile che questi regolamenti vengano realmente letti prima di apporre la propria firma; ed è proprio l’atteggiamento degli utenti italiani al centro della ricerca “L’insostenibile leggerezza del dato” realizzata da PHD Italia, agenzia media e di comunicazione di Omnicom Media Group e presentata ieri a Milano in collaborazione con il periodico L’Economia di RCS MediaGroup. Alessandro Lacovara, Managing Director alla guida di PHD Italia commenta: “La tecnologia utilizza i dati apparentemente senza sforzo, senza lasciare tracce, con leggerezza, ma questo lavoro silenzioso delle macchine sta cambiando tutto e affrontare marketing e comunicazione senza capire la centralità del dato è - oggi e domani - insostenibile. Nel prossimo futuro, grazie alla raccolta, all’analisi e all’utilizzo di dati complessi sarà possibile anticipare necessità e desideri. E i brand, come già sottolineato da PHD con “Merge – Il divario finale tra uomo e tecnologia”, dovranno concentrarsi su come ottenere la fiducia dei consumatori in merito alla gestione dei dati personali, da cui dipenderà il fallimento o il successo delle aziende del futuro”.

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Gli italiani e i dati sensibili

La ricerca di PHD Italia descrive un atteggiamento contraddittorio. Gli italiani sono preoccupati per la propria privacy online, ma quando si tratta di proteggerla sono poco attenti. Pur sapendo che le informazioni che li riguardano hanno un valore commerciale, non sanno esattamente come queste vengono utilizzate e pur diffidando delle aziende, e desiderando di disporre di maggiore controllo, sono anche disposti a scambiare informazioni a fronte di un vantaggio economico. Nello specifico, il 62% si dice preoccupato per la privacy online e il 67% dichiara preoccupazione in crescita soprattutto dopo lo scandalo Cambridge Analytica, che riportato l’attenzione sull’utilizzo improprio dei dati “per manipolare la democrazia” (57%).

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Quattro profili di comportamento

La ricerca di PHD ha individuato quattro macro comportamenti rispetto alla “data economy” e alla privacy online. I “Protagonisti” (19%) sono molto consapevoli, coinvolti in prima persona, attenti e informati sulle strategie e gli strumenti per tutela della privacy. Gli “Antagonisti” (27%) sono molto preoccupati ma incapaci di prendere in mano la situazione, diffidenti, ansiosi e sentono di non avere alcun controllo; le “Comparse” (28%) prendono le distanze dal tema, che considerano una questione unicamente tecnologica, sono ottimisti e si lasciano trascinare dal progresso senza particolari attenzioni o strategie; gli “Spettatori” (26%) non lo considerano un loro problema,  desiderano un maggior controllo ma lo demandano completamente ad altri. C’è però un elemento che li accomuna, ossia manca una concreta adozione di comportamenti utili a contenere i rischi. Anche se preoccupato, solo il 50% del campione si definisce “attento” alla protezione della propria privacy in rete. Il 39% del campione è spaventato dalla condivisione di dati personali, ma una quota simile (38%) dà il proprio consenso leggendo velocemente o alla cieca. Nei giovani tra i 18 e i 24 anni tale noncuranza sale al 43%. Lo scandalo Cambridge Analytica non ha colpito più di tanto gli italiani: il 53% dichiara di aver sentito la notizia ma di non averla approfondita e solo il 10% dichiara di aver modificato il proprio comportamento in relazione allo scandalo. Il 46% degli intervistati, inoltre, dichiara di non aver adottato recentemente nessuna precauzione per proteggere la propria privacy. Sale però l’allerta e gli italiani vogliono più informazioni: se prima dello scandalo chi riteneva che ci fosse un buon livello di informazione si attestava al 23%, nella seconda rilevazione dopo lo scandalo questa percentuale è scesa al 18%. Inoltre, la quota di coloro che dichiarano di essere “sempre consapevoli” di come vengono trattati i propri dati personali è scesa al 19% (dal 22% iniziale).

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I motivi di preoccupazione

Gli italiani si preoccupano che la diffusione dei propri dati in rete li esponga a frodi informatiche e phishing (76%). Il 75% è preoccupato per l’utilizzo improprio dell’immagine dei minori, della cui privacy gli adulti si dichiarano molto più attenti che per la propria. Seguono il furto d’identità e la scarsa trasparenza sull’utilizzo dei dati personali, ma gli italiani conoscono poco gli strumenti di tutela come la falsificazione deliberata dei propri dati su social o altri siti e la crittografia, che si ferma al 50% e solo l’11 e al 26% rispettivamente li utilizza. La navigazione in incognito non supera il 45% sia come conoscenza sia come utilizzo.

Il valore dei dati

Il 71% degli italiani, secondo i dati di PHD è consapevole del valore commerciale dei propri dati personali, il 47% (58% negli over 45) concorda nella definizione di “moneta di scambio per contenuti gratuiti sul web” e indica in un vantaggio economico come il risparmio la motivazione più forte (65%), percentuale che sale al 78% nei “Protagonisti” contro il 53% degli “Spettatori”. Tra i brand ai quali si affiderebbero più volentieri le informazioni in cambio di un vantaggio primeggia Amazon (58%, tra i più giovani 65%), che supera tutti gli altri colossi tecnologici: Google 47%, Microsoft 39%, Apple 36%, Facebook 33% (quest’ultimo in calo di soli 3 punti, al 30%, nella rilevazione effettuata dopo lo scandalo Cambridge Analytica). Il 51% sceglie come moneta di scambio il “servizio personalizzato”, il 39% le “offerte che anticipino bisogni e desideri” il 33% la “possibilità di entrare in contatto con persone affini ai propri gusti”. Le informazioni che potrebbero essere scambiate, sempre a fronte di un risparmio, sono le abitudini alimentari (50%), gli acquisti (48%), il tempo libero (48%) e i consumi culturali (46%). Solo il 17% degli italiani è disposto a rivelare le proprie abitudini finanziarie o quelle sessuali (10%). Alle piattaforme di e-commerce si affiderebbero più volentieri le informazioni relative agli acquisti, alle banche se ne negherebbero molte, abitudini finanziarie incluse. Con le case farmaceutiche, invece, si esiterebbe in misura inferiore per le abitudini medico-sanitarie, così come con i supermercati per quelle alimentari. Emblematica e sintomo di una consapevolezza ancora tutta da costruire, la scarsa propensione dichiarata nel fornire informazioni sulle proprie abitudini ai social network. Per tutte le tipologie di dati, inoltre, gli intervistati dichiarano di preferire la rilevazione diretta (tramite questionari o richieste specifiche) a quella indiretta (attraverso l’utilizzo di oggetti e dispositivi smart).

I dati hanno un prezzo

In cambio delle proprie informazioni gli italiani vogliono denaro (il 62% del campione): quelle sulle condizioni medico-sanitarie sono considerate di maggior valore e quindi chiederebbero oltre 100 euro, subito dopo arrivano le informazioni sulle abitudini sessuali, mentre essere monitorati negli spostamenti vale 50 euro per una persona su cinque. Sul tema della trasparenza, il 52% ritiene le istituzioni responsabili della protezione dei dati personali e della privacy e il 64% vorrebbe avere un maggiore controllo sulle informazioni che fornisce alle aziende, anche perché solo uno su dieci (11%) si dice convinto della trasparenza delle aziende rispetto alle politiche di gestione dei dati personali dei clienti (e dopo lo scandalo datagate la percentuale di chi non si dice convinto passa dal 42 al 52%). Il 31% prevede che le scelte di acquisto potrebbero essere influenzate dal livello di trasparenza sul trattamento dei dati offerto dall’azienda che propone il prodotto o servizio che intendono acquistare: nei “Protagonisti” questa percentuale arriva a sfiorare il 42%.