Autore: Redazione
19/06/2018

Empatia e libertà: le ads devono perdere il carattere pubblicitario e trasformarsi in solvertising

Il linguaggio istituzionale - secondo Per Pedersen, Global Creative Chairman di Grey - “è una rovina per la industry”. Bisogna dunque tornare a un modo di comunicare più pop, eliminare “stupidi processi che uccidono la creatività” in modo da liberarla invece che gestirla

Empatia e libertà: le ads devono perdere il carattere pubblicitario e trasformarsi in solvertising

dai nostri inviati a CANNES, Anna Maria Ciardullo Francesco Lattanzio

Le revenue sono un indicatore chiave del lavoro di un pubblicitario, ma ancora più di queste, non si può prescindere dalla qualità di ciò che viene divulgato. “Gran parte dell’industry pubblicitaria è gestita da un CFO o da qualcuno che pensa allo stesso modo. Il risultato è ben visibile sul mercato: moltissime creatività sono di qualità inaccettabile”, ha dichiarato Per Pedersen, global creative chairman di Grey presente a Cannes. Davanti a queste oscenità “l’industry ha chiuso gli occhi”, e il risultato è che l’advertising è sempre più ignorato dai consumatori, considerato un fastidio più che un’opportunità. “L’unica cosa che c’è da tenere a mente in questo settore è che tutto cambia, le regole non possono resistere più di brevi periodi di tempo, e quindi nascono per essere infrante”, aggiunge.

L’errore più grande: fare ads che sembrano ads

Il sentimento più comunemente associato alle pubblicità è il fastidio. La forma classica di un’inserzione deve dunque essere infranta, bisogna “smettere di parlare come una pubblicità, di apparire e di farsi percepire come tale”, spiega. Uscire dagli schemi apre una serie di vie alternative, come ad esempio il solvertising, ovvero risolvere un problema o semplificare la vita dei consumatori attraverso piccoli tool che loro possano riconoscere come un supporto, aumentando la percezione del brand. Grey per esempio ha unito le forze di tre diverse piattaforme di AI per creare un tool capace di cancellare contratti di ogni tipo, da abbonamenti a servizi non richiesti alla chiusura di contratti con compagnie telefoniche. Il tutto attraverso operazioni automatiche di chiamate ai centralini. In questo caso, l’attività pubblicitaria nasce da un puro sentimento di empatia con i consumatori, e sfrutta l’AI come strumento per finalizzare il servizio, non in fase prettamente creativa.

Il linguaggio corporate non serve a niente

La cultura pop si chiama così perché parla alle masse. Nasce spontaneamente, non è costruita, e allo stesso modo dilaga e diventa di utilizzo comune. “Essere corporate non serve a niente, per la industry è solo un linguaggio deleterio. Per essere incisivi bisogna parlare il linguaggio della gente, essere culturalmente rilevante”, continua Pedersen in quel di Cannes. Con il tempo si è sviluppata la tendenza ad assumere un linguaggio simile, neutrale, e poco reale. Uno stile comunicativo costruito, in cui il consumatore non si riconosce facendo precipitare l’efficacia della copertura pubblicitaria.

La creatività va liberata, non gestita

Le risorse creative dovrebbero “tornare al comando delle agenzie, riportando così al centro la creatività”. I lavori migliori vengono “dal loro cuore” e ci vuole uno slancio di coraggio per fare si che questo torni il vero motore delle strutture. Che ora sono succubi di “stupidi processi che uccidono la creatività”. Un’attitudine che non si può gestire, ma deve restare libera. “Le decisioni lasciate ai creativi sono sempre meno, perché un errore può avere un impatto economico. Ma sbagliare è parte del processo creativo, gli errori più grossi vanno celebrati come parte di una vittoria”, puntualizza Pedersen. Se l’empatia è l’ispirazione dei creativi e la libertà - con l’apologia dell’errore come parte importante del processo – è il campo dove nascono le idee vincenti, gli algoritmi ricoprono solamente un ruolo strumentale, abilitante. Restano un veicolo della creatività, al pari di un tabellone o uno schermo.