Il CdA del gruppo dovrebbe sancire oggi il passaggio di consegne da parte di suo padre Carlo; John Elkann auspica per la prossima settimana il via libera di Consob alla fusione
Carlo De Benedetti starebbe per lasciare la presidenza di GEDI. Le voci si sono rese insistenti all’indomani del convegno “The Future of Newspapers”, tenutosi mercoledì scorso a Torino nell’ambito dei festeggiamenti per i 150 anni del quotidiano La Stampa, chiuso proprio dalle considerazioni di Carlo De Benedetti. La notizia non trova una conferma ufficiale presso l’editore di la Repubblica, ma pare quasi certo che l’ingegnere si dimetta a favore del figlio Marco, attuale amministratore di Carlyle. Sfumate invece le voci sull’ex direttore del quotidiano, Ezio Mauro, per la vice presidenza. La questione sarà affrontata nel corso di un Consiglio di Amministrazione indetto per oggi. La notizia fa il paio con l’annuncio dato da John Elkann sempre nel meeting torinese, secondo cui la settimana prossima dovrebbe arrivare a conclusione il processo di fusione tra Gruppo L’Espresso e ITEDI, ancora in attesa del via libera da parte della Consob.
De Benedetti: chiediamogli Stati generali dell’editoria
Una società democratica non può fare a meno dell’informazione professionale, ma per sopravvivere quest’ultima ha bisogno di essere opportunamente remunerata. Google, Facebook, i nuovi mediatori non professionali dell’informazione, guadagnano ingenti somme da contenuti prodotti dagli editori, ai quali restano solo le briciole. Per questo motivo «chiediamo la convocazione degli Stati generali dell’editoria d’informazione. Non vogliamo aiuti di Stato né sovvenzioni, vogliamo cercare il modo per rimanere remunerativi perché se muore l’editoria d’informazione, non muore solo un settore industriale. Muore una funzione essenziale dei sistemi democratici». Carlo De Benedetti ha concluso così il convegno di Torino voluto dal numero uno di Exor John Elkann. «Noi editori - ha continuato - ci siamo resi conto che non dà risultati andare alla guerra contro Google e soci, che pure usano i nostri contenuti senza retribuirci. Hanno mezzi e risorse per respingerci. Noi chiediamo solo di poter fare il nostro mestiere. Non siamo più i soli a raccogliere, elaborare e fornire informazioni, a connettere persone e istituzioni, a lubrificare l’economia e i commerci con la pubblicità. Dobbiamo ridefinire qual è in questo nuovo contesto il ruolo degli imprenditori dell’informazione. Dobbiamo creare prodotti informativi non replicabili, perché nel mondo digitale c’è la legge del good enough, di un’abbondanza di prodotti buoni abbastanza. Dobbiamo concentrarci sull’informazione che fa la differenza».
Un nuovo modello di business
Come si diceva, Facebook e Google dominano il mercato pubblicitario di cui drenano la maggior parte delle risorse, senza produrre contenuti ma anzi avvalendosi dei contenuti altrui. Come ha sottolineato in apertura di convegno Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, ogni singolo utente digitale genera un ricavo annuo di 25 dollari per Facebook, ma solo 25 centesimi per l’editoria. Inoltre, diffusioni e raccolta pubblicitaria sono in calo. «I nostri prodotti attirano però molti lettori che vogliono informarsi – ha detto Molinari -. Occorre un nuovo modello di business che introduca e faccia accettare ai lettori il pagamento dei contenuti. Non dobbiamo aver paura di reinventarci, anche con idee dirompenti. Magari riflettere sulla lunghezza dei contenuti, scrivere meno ma garantire una qualità così alta da giustificare prezzi più alti, trasformare le piattaforme digitali in generatori di servizi a prezzo di mercato». I giornali devono essere affidabili, nei contenuti così come nella comunità che costruiscono intorno a sé stessi.
Nuove competenze professionali e qualità
Uno degli scopi dell’incontro, ha detto Molinari, era trovare idee per avviare il processo di cambiamento. Che deve partire senz’altro dalla professionalità dei giornalisti. Nei giornali del futuro «ci vorranno conoscenze specialistiche non necessariamente giornalistiche – ha detto Lionel Barber, editor Financial Times -. I giornalisti devono avere il senso del nostro business, saper fare reportage ma anche avere competenze di software, expertise digitale. Occorre avere qualcosa di distintivo, sapersi mettere in contatto con il lettore. Una volta non sapevamo minimamente chi fosse». John Micklethwait, editor in chief di Bloomberg News, ha moderato la tavola rotonda a cui hanno partecipato anche Bobby Ghosh, editor in chief di Hindustan Times; Lydia Polgreen, editor in chief The Huffington Post; Ascanio Seleme, editor in chief di O Globo. Sul tema delle competenze concorda anche Ghosh, mentre per Polgreen ribadisce la necessità di costruire un rapporto di empatia con il lettore. Per Seleme al centro del business ci sono le notizie, prodotte da persone: «Non saranno i robot a garantirci il futuro, nessuno pagherebbe per una notizia che è diventata una commodity».
L’intelligenza artificiale «non ci soppianterà – dice Barber -, un robot può fare delle cose ma non può dare il valore aggiunto di un giornalista, che rappresenta la voce autorevole di un giornale». Per Ghosh «la tecnologia non sostituirà il giornalismo, ma i giornalisti devono usarla per raccontare le storie in modo più efficace». I social network sono un male necessario, o addirittura un pericolo, incoraggiano a usare un tono sarcastico o aggressivo, sono ingovernabili, gli stessi giornalisti li usano con poco senso di responsabilità: ma Polgreen ne sottolinea l’utilità per far circolare notizie. E poi sono fonti di fake news, la cui risposta è il giornalismo di qualità. «Servono investimenti - dice Seleme - per fare prodotti di qualità e attirare abbonati»; anche se secondo Polgreen i lettori fanno fatica a distinguere il lavoro giornalistico e quello, ad esempio, sponsorizzato. Sul conflitto tra investitori pubblicitari e giornalismo investigativo le ombre sono tante: «Noi dobbiamo indicare i redazionali ma questo agli advertiser non piace», dice Barber e Ghosh afferma: «Siamo costretti a fare le contorsioni, spero che i lettori capiscano». A fronte del dilagare del digital, qual è il destino del cartaceo? «Deve essere più efficiente, facile da leggere, avere un ottimo design – dice Barber -. Puntare sul fine settimana, c’è più tempo per leggere». Selene: «I lettori amano la gerarchia delle notizie sul cartaceo, più efficiente della disposizione delle notizie su un sito, gli utenti amano il giornale stampato, per lo meno in Brasile. Forse dobbiamo ripensare il formato, magari più piccolo».
Nuovi modelli di business per il digitale
Gli investimenti pubblicitari sono in calo e le grandi piattaforme digitali se ne accaparrano la maggior parte. Per superare il modello gratuito con pubblicità che mostra le corde la soluzione pare una sola: incrementare l’acquisto fidelizzato, vale a dire gli abbonamenti. Su questa strada si è incamminato decisamente il New York Times: «Siamo concentrati sugli abbonamenti digitali – afferma il Ceo Mark Thompson – perché non voglio continuamente pregare per la sopravvivenza della carta, che potremmo anche eliminare, conservando un terzo del business rappresentato dall’adv. 10 milioni di abbonamenti sono un obiettivo plausibile in un mercato ancora immaturo dove non vediamo tanta concorrenza». Al dibattito moderato dall’editor in chief Zanny Minton Beddes dell’Economist ha partecipato anche Robert Albritton, chairman e Ceo di Politico: «Pubblicità e abbonamenti hanno lo stesso peso nel nostro business, abbiamo eliminato la carta. Il lettore è il nostro cliente». Il Ceo di Le Monde Louis Dreyfuss ha detto che la maggior parte del business è rappresentato dalle diffusioni cartacee, e solo in parte dall’adv: «Non vogliamo convertirci esclusivamente al digitale, ci stiamo attrezzando, ma crediamo che la carta durerà molti anni ancora. Non scegliamo abbonamenti o pubblicità. Vogliamo ottenere il meglio dai due mondi. Per garantire la fidelizzazione dei nostri abbonati puntiamo sull’esclusività dei contenuti». Per Gary Liu, Ceo di South China Morning Post Publishers, «gli abbonamenti confinavano il nostro giornale al pubblico di Hong Kong, li abbiamo abbandonati per costruire un brand globale che possa raccontare la Cina grande potenza economica mondiale. Solo a quel punto si cercherà un altro modello di ricavi». Superare il modello locale sembra essere un altro passo verso il futuro: «Ci sarà spazio solo per uno o due giornali nazionali non di lingua inglese», ha detto Thompson.
Il rapporto con Google e Facebook
Il direttore di la Repubblica Mario Calabresi ha condotto il dibattito sul rapporto dell’industria editoriale con le piattaforme web che dominano il mercato. Per Andrew Ross Sorking, editor at large, columnist & founder di DealBook, The New York Times «Facebook e Google sono media company e non sono certo che siano nostri amici. Si propongono come partner dell’industria, ma se ci tengono le mani intorno al collo che partner sono? Loro sono come proprietari terrieri, noi siamo gli affittuari in un rapporto quasi feudale». Per Jessica Lessin, founder ed editor in chief di The Information «a Google e Facebook non interessa il settore delle notizie, vogliono solo mettere tutti in rete». Il CEO di News Corp Robert Thompson afferma: «Spesso per Facebook si parla di giardino murato. Ma in questo caso i muri sono alti 50 metri e intorno ci sono anche i coccodrilli». Ma non si può dichiarare guerra a Facebooke Google, spiega Julian Reichelt della Bild, inoltre «per i giovani Facebook è internet. Dobbiamo collaborare con loro facendo accordi che ci permettano di monetizzare i nostri contenuti, dobbiamo collaborare. A volte fanno meglio di noi le cose che sono il nostro core business.
Per esempio, per i lettori è importante aprire gli articoli velocemente. E’ un’esigenza informativa. Noi non ci siamo riusciti, Facebook ha creato gli instant articles, e offrendo un prodotto migliore di quello che diamo noi mantengono gli utenti dentro Facebook». E Tsuneo Kita, chairman di Nikkei commenta: «Google e Facebook non sono né amici né nemici. Esistono solo da 10 anni, se pensiamo a cosa è successo nel frattempo e a come possono cambiare le cose nei prossimi dieci anni possiamo immaginare che ci saranno nuovi modi per fornire servizi. Io credo che Facebook non avrà lo stesso rilievo tra 10 anni e credo che arriveranno nuovi attori, e noi dovremo affrontare il loro arrivo». Per quanto riguarda il futuro dell’informazione «bisogna andare dove sono i nostri lettori, attirarli più che inseguirli, fare un giornalismo che valga la pena pagare» (Lessin); «creare contenuti accattivanti come “Games of Thrones”, soprattutto per il Millennials che non vogliono pagare ma sono assetati di notizie, agire in fretta per operare il cambiamento» (Sorkin); «creare un portafoglio, non escludere piattaforme, flessibilità» (Thomson); «non aver paura di far pagare i contenuti» (Reichelt); «andare incontro alle necessità dei lettori, fare giornalismo di qualità, accettare le nuove tecnologie ed essere aperti alle piattaforme social» (Kita).
Elkann e Bezos: l’informazione si paga
Nel 2013 Jeff Bezos, l’inventore di Amazon, il terzo uomo più ricco del mondo secondo Forbes con 72,8 miliardi di dollari, ha acquistato il Washington Post dalla famiglia Graham. «Non avevo intenzione di entrare nel settore editoriale, ma loro avevano bisogno di aiuto a sviluppare la parte digitale». Oggi il Post è una società tecnologica, «abbiamo sviluppato un sistema che vendiamo a terzi (ARC, ndr), per noi questo è un secondo business». Bezos ha incontrato John Elkann in un dibattito moderato dal direttore della divisione digitale di GEDI, Massimo Russo. Entrambi gli imprenditori affermano che un giornale debba perseguire il profitto per mantenersi indipendente. Perciò un modello di business non può prescindere dagli abbonamenti perché solo la pubblicità non basta. «Bisogna scrivere bene, scrivere la verità e chiedere ai lettori di pagare. Loro sanno che il buon giornalismo non è gratis», dice Bezos.
Per Elkann, che ricorda la partecipazione di Exor nell’Economist, il brand è fondamentale: il punto di vista dell’Economist garantisce la crescita sia del numero degli abbonati sia del prezzo di copertina. «Sono certo che nessuno è contento di lavorare in un giornale in perdita, non avremmo mai pensato a una gestione filantropica» ha aggiunto Elkann, mentre Bezos ha detto: «Io non ho obiettivi filantropici, voglio un giornale in salute e indipendente. Non si può tagliare per raggiungere profitti». E ancora: «Noi gestiamo Amazon e Washington Post in modo simile sull’approccio di base. Ci concentriamo sul cliente/lettore) e così arriva anche l’advertising. Ma non basta il programmatic, altrimenti bisogna essere molto snelli e ridurre le redazioni, diminuendo i contenuti originali, quelli più costosi. I nostri dati dimostrano che le storie più impegnative che produciamo sono quelle che attirano gli abbonamenti».
Elkann ha detto che il quotidiano La Stampa è stato redditizio nel 2016 e farà utili nel 2017. «Se siamo riusciti a raggiungere e mantenere una certa redditività è stato grazie ad alcune operazioni di consolidamento, con il Secolo XIX della famiglia Perrone e successivamente con il Gruppo Espresso, che ci hanno consentito di tagliare i costi e bilanciare così il calo di due terzi accusato sul fronte dei ricavi da pubblicità». Per Bezos, «la carta non scomparirà ma diventerà un oggetto di lusso. Sarà come comprare un cavallo: oggi nessuno compra un cavallo come mezzo di trasporto, ma perché è bello».