Autore: Redazione
10/01/2017

Informazioni personali online e offline: quanto ne sa Facebook?

Pro Publica ha condotto un’inchiesta sul tema e scoperto l’influenza e lo stretto legame tra il social e la realtà fisica

Informazioni personali online e offline: quanto ne sa Facebook?

di Anna Maria Ciardullo

Viviamo in un’epoca in cui sempre più attività sono caratterizzate dall’automazione. Le macchine non ci aiutano solo con il lavoro manuale, ma anche con le attività intellettuali, curando le notizie che leggiamo o calcolando per noi le migliori indicazioni stradali. Ma, man mano che ci affidiamo a esse per le più svariate decisioni, è sempre più importante comprenderne le logiche, come gli algoritmi che stanno dietro al loro funzionamento. Troppo spesso, infatti, questi algoritmi sono una scatola nera ed è pressoché impossibile per i non addetti ai lavori capire quali implicazioni derivano, soprattutto in termini di privacy.

Facebook, un impero fondato sui dati personali

Facebook possiede una serie di informazioni particolarmente dettagliate che contengono i dati dei suoi 1,8 miliardi di membri. Stiamo parlando di dati come gusti musicali, preferenze cinematografiche, orientamento sessuale. Ma non solo. Il social conosce anche il nostro stile di vita, ciò che ci piace fare e ciò che non ci piace fare. Può conoscere i nostri gusti sessuali anche se non li specifichiamo, gli orientamenti religiosi e politici ed è in possesso anche d’informazioni riguardo spostamenti, localizzazione e così via. Una vera e propria carta d’identità contenuta in un grande database virtuale. A questo proposito, vale la pena indicare un nuovo disegno di legge americano, che impone dichiarare tutti i propri account social (e non solo) per entrare negli Stati Uniti. Facebook e Twitter, ovviamente, ma anche Flickr, Google+, Instagram, LinkedIn, Tumblr, Vine, YouTube ed eventuali altri. Chi di dovere poi metterà il naso dove possibile, sulle tracce digitali, con l’aiuto di algoritmi e sistemi automatizzati.

Le tracce digitali

Dunque, ogni volta che a un utente di Facebook piace un post, tagga o viene taggato in una foto, aggiorna i propri film preferiti invia un commento su un politico, o cambia il suo stato di relazione, Facebook lo registra. Quando si naviga il web, Facebook raccoglie informazioni sulle pagine visitate che contengono pulsanti di condivisione di Facebook. E si potrebbe continuare ancora per moltissimi altri dettagli delle proprie attività pubbliche e private. Anche quando si accede a Instagram o WhatsApp sul telefono cellulare, essendo entrambe app di proprietà di Facebook, si aggiungono sempre più dati al dossier. E nel caso in cui non fosse sufficiente, Facebook acquista anche i dati dei suoi utenti raccolti da terze parti, dati che non riguardano solo le proprie attività sul web ma anche offline come dati bancari, stipendio, posizione lavorativa, auto di proprietà, mutuo, abitudini di acquisto e un’infinita serie di dati commerciali. Facebook, se ancora non fosse chiaro, è tanto un’azienda pubblicitaria quanto un social network. La società fondata da Mark Zuckerberg è probabilmente seconda solo a Google nella raccolta dati sugli utenti, ma le informazioni che tutti noi condividiamo sul sito (e sono già molte) evidentemente, non sono ancora sufficienti. Sul tema Pro Publica ha condotto una lunga inchiesta resa nota poco prima della fine dell’anno scorso.

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Un tool rivela quali dati possiede Facebook

La piattaforma utilizza tutti questi dati per offrire ai marketer la possibilità di indirizzare gli annunci a gruppi sempre più specifici di persone. Sono la vera miniera d’oro del social network di Zuckerberg. In effetti, si stima che Facebook possa offrire agli inserzionisti più di 1.300 categorie per il targeting degli annunci. E non si limita ad acquistare i nostri dati ma li rivende anche a società terze che utilizzano le nostre informazioni per conoscere le tendenze dei mercati e per migliorare al massimo i loro profitti. Su 29.000 categorie totali individuate, 600 esistono grazie a dati di provider terzi. Il problema di queste, come emerso di recente, è che molto spesso non categorizzano per argomenti innocui, come i gusti musicali, ma anche per affinità etniche o al contrario per esclusione “razzista”. Nessuno sa dire, in un futuro prossimo o remoto che sia, come il loro l’utilizzo sia suscettibile di cambiamento. Il portale statunitense “Propublica.org” ha costruito uno strumento (un’estensione per Google Chrome, “What Facebook Thinks you like”) che permette agli utenti di visualizzare i dati in possesso di Facebook, almeno buona parte. Si tratta di informazioni che Facebook stesso offre in realtà agli utenti ma sepolte molto in profondità nelle impostazioni della piattaforma ( la maggior parte nella sezione “Ad Preferences”.) Non è chiaro, però, se sia possibile risalire a tutto ciò che Facebook sa di una persona. Il tool di ProPublica è nato, infatti, proprio con l’intento di indagare questo mare misterioso e il team del portale ha invitato gli utenti a condividere le proprie rilevazioni al fine di stilare con la massima precisione possibile tutte le specifiche che il social conosce su di noi. L’intento di questa indagine è proprio quello di individuare eventuali rischi reali, sebbene per il momento la piattaforma non sia mai stata vittima di hacker e senza scadere in allarmanti teorie del complotto.

I dati maggiormente esposti sono quelli finanziari

Ciò che però la piattaforma non dice, ad esempio, è che molte fonti dei dossier sono broker di dati commerciali che trattano soprattutto informazioni sulla vita non in linea degli utenti. E, non essendo parte delle categorie di Facebook, la piattaforma non è tenuta a specificare l’origine delle informazioni, spesso straordinariamente dettagliate, che ottiene da questi intermediari. I partner tendenzialmente sono noti, come Acxiom, Epsilon, Experian, Oracle Data Cloud, TransUnion e WPP. Sono aziende che, nella maggior parte dei casi, trattano informazioni di carattere finanziario come liquidità totale investibile, reddito familiare, abitudini di pagamento, con carta, in contanti e così via. Il report di ProPublica rivela, insomma, che questi dati si focalizzano sul comportamento “offline” degli utenti e non solo su quello che fanno “online” su Facebook. Gli utenti potrebbero impedire l’utilizzo di queste informazioni ma il problema è che si tratta di una trafila burocratica infinita e per certi versi impossibile. Bisognerebbe mettersi in contatto direttamente con ogni fornitore, conoscere le loro procedure e decifrare documenti scritti in termini legali non facilmente comprensibili. Per essere più specifici quanto alla difficoltà di uscire da queste dinamiche, l’opting out da Oracle Datalogix, che fornisce circa 350 tipi di dati a Facebook, richiede l’invio di una richiesta scritta, insieme a una copia di un documento d’identità emesso dal governo il tutto spedito in posta ordinaria all’ufficio privacy di Oracle. Inoltre, Facebook cambia provider continuamente e non tutti questi permettono di fare opt out senza problemi di sorta. Per stare al passo, gli utenti dovrebbero visitare regolarmente il centro assistenza nel tentativo di trovarli e proteggere la loro privacy. Jeffrey Chester, executive director del Center for Digital Democracy ha dichiarato a ProPublica che “Non si possono definire pratiche oneste, seppur legittimate. Facebook si serve di dozzine di data companies per targettizzare un solo individuo e quest’ultimo dovrebbe esserne al corrente”. Quando Facebook è stato interrogato riguardo a questa mancanza di informazione, i vertici si sono giustificati spiegando che gli utenti possono distinguere l’uso di dati di terze parti se “sanno dove guardare” e che la piattaforma non è obbligata a fornire dettagli agli utenti su come utilizza i dati in arrivo da servizi di terze parti, poiché sono queste aziende a occuparsi del monitoraggio, non il social network. Steve Satterfield, uno dei responsabili della privacy di Facebook, ha spiegato a ProPublica che il loro approccio riguardo ai controlli delle categorie in arrivo da terze parti è in qualche modo diverso rispetto alle categorie specifiche di Facebook. Il motivo è che le categorie di questi data provider con cui lavorano, generalmente, sono disponibili su molte piattaforme pubblicitarie, non solo su Facebook.

Anche il governo può accedere al nostro profilo

Più legittimata in certi casi, ma anche la lente d’ingrandimento delle istituzioni può mettere facilmente le mani sui nostri profili. Nella prima parte del 2016 i governi di tutto il mondo hanno richiesto a Facebook di accedere ai dati degli account di quasi 60 mila utenti. Secondo un report, che il social network ha da poco pubblicato, il numero è cresciuto del 27% rispetto allo stesso periodo nel 2015. Per quanto riguarda la situazione in Italia scopriamo che il nostro governo ha inviato quasi 2.900 richieste di accesso agli account degli utenti del social network. Di queste richieste 41 sono state effettuate sotto regime di emergenza, mentre il resto ha seguito l’iter ordinario. Ma quanti dati ha rilasciato il social network a seguito di queste richieste? Il 56% per quelle avanzate con procedimento legale e il 70% per le richieste di accesso in caso di emergenza.