Autore: Redazione
09/05/2017

Festival of Media Global Roma 2017: il racconto del Day 1

Gli interventi di Teads e IBM, oltre a una tavola rotonda sul tema del programmatic adv in house, al centro dei lavori della giornata di apertura della kermesse capitolina

Festival of Media Global Roma 2017: il racconto del Day 1

Dall'inviato a ROMA, Francesco Lattanzio

Teads: l’AI è il prossimo comune denominatore dell’adv. E il video diventa “Conversational”

“Interattivi, mobile, data driven e conversational”, sono questi secondo il ceo di Teads Studio, Emi Gal, gli elementi del video advertising. Tutti però risiedono sotto il cappello comune dell’Artificial Intelligence. E la società sta testando i chatbot all’interno dei filmati pubblicitari

La tecnologia ha dato una forte spinta a tutti i segmenti dell’advertising. Tra questi il video è sempre stato il più coinvolgente, producendo tassi di engagement più elevati della media dei formati a disposizione degli inserzionisti. Il fenomeno dell’artificial intelligence sta investendo l’intera industry pubblicitaria, e i filmati digitali non ne sono rimasti esclusi.

I tratti di un advertising efficace, di conseguenza, si stanno arricchendo di nuovi fattori. I video devono essere “interattivi, mobile, data driven e conversational”, spiega il ceo di Teads Studio, Emi Gal al Festival of Media di Roma.

«La band The Futureheads ha partecipato ad un video per l’advertiser Bupa. Ogni membro del gruppo rappresentava una diversa parte del corpo (polmoni, fegato, cuore e ossa) e all’inizio del filmato all’utente era richiesta la risposta a una serie di domande sulle malattie di questi organi. Più errori venivano commessi e peggio suonava la band. L’interattività proposta dall’agenzia (WCRS) ha fatto impennare i livelli di engagement», ha spiegato Gal.

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L’elemento mobile è sempre più importante, e la tendenza degli inserzionisti a riadattarvici gli spot televisivi ha spinto la società francese a introdurre un tool capace di evitare la solita creatività a centro schermo attraverso un semplice editing che permette un riadattamento verticale «dando anche un effetto simile a quello dei video a 360 gradi»; in questo modo il formato ha una fruizione molto diversa, specialmente a livello di percezione.

Nel sistema programmatic, la Data Management Platform (DMP) mette assieme dati di prima e terza parte, appoggiandosi poi a un buying engine per delineare target e creatività dinamiche. Queste ultime sono in grado di sfruttare i dati sull’utente per adattare il messaggio consegnato sulle sue preferenze, rendendolo molto più efficace.

L’elemento conversational è invece inedito per Teads. «Qualche mese fa ho iniziato ad appassionarmi ai chatbot. Abbiamo iniziato poi a studiarli e ora stiamo provanto a integrare l’esperienza chatbot all’interno di una video ad. In questo modo si può fare engagement con i video stessi, sfogliando i prodotti o facendo richieste direttamente dal box pubblicitario. Attraverso questo, l’utente potrà poi portare a termine azioni come l’acquisto», svela Gal.

Tutti questi fattori risiedono sotto un cappello comune: l’Artificial Intelligence. La tecnologia deve avere tre abilità: l’apprendimento, l’accesso ai dati e una grande velocità computazionale. «L’AI esiste dagli anni 70, ma solo ultimamente, grazie all’esplosione del deep learning, è possibile applicarla a scopi reali. Il deep learning cerca di replicare la struttura di apprendimento del cervello: quando si vuole riconoscere una faccia si riconoscono prima gli ‘edge’ (la differenza tra i colori ad esempio dei capelli e della pelle del volto) poi questi si combinano tutti assieme e si definiscono i tratti somatici. I computer sono diventati più bravi degli umani a distinguere e individuare gli oggetti all’interno dei video, e migliorano le proprie capacità automaticamente, senza interventi esterni», continua ancora Gal.

Le abilità, combinate tra di loro, sono molto efficaci in due campi molto diversi tra loro: creatività e planning. A livello creativo, l’AI è capace di capire sia il messaggio da consegnare ad ogni singolo utente sia a comporre vere e proprie opere d’arte. «L’Università di Tubinga ha insegnato a un motore di AI le tecniche di disegno proprie di Picasso, van Gogh, e Munch. L’algoritmo è stato in grado di disegnare elementi, all’interno dei quadri degli autori, mantenendo lo stesso stile. Poi gli è stato chiesto di disegnare una sua opera originale, e il risultato è stato stupefacente», racconta il ceo di Teads Studio.

Per quanto riguarda il planning, l’incrocio tra i dati e la capacità computazionale dell’algoritmo di AI possono essere un potente aiuto per l’ottimizzazione delle campagne e della delivery, anche live.

«Agenzie e advertising dovrebbero investire in una DMP perché permette, con l’AI e i dati a disposizione una forza creativa e conversazionale molto grande», conclude Gal.

«L’AI rivoluzionerà tutto e non si tornerà più indietro». E al Festival of Media IBM presenta Lucy, il suo marketing assistant

Il software Watson è in grado di analizzare in modo profondo il tono di voce e la personalità degli utenti, oltre che i fondamenti sui quali basano le proprie scelte. Lo strumento è applicabile al marketing sotto forma di una soluziona avanzata chiamata Lucy: un tool che potrebbe cambbiareper sempre il modo di lavorare della industry pubblicitaria

Il digital sta cambiando il modo in cui le company interagiscono con i consumatori. La customer experience è sempre più il riferimento principale delle aziende, che cercano di mettere l’utente a suo agio nel percorso all’interno delle sue property virtuali. Dall’altro canto, però, la customer expectation diventa sempre più alta, quanto più si alza la qualità dell’advertising e dei siti che frequentano gli user.

«L’ultima migliore esperienza che ognuno ha avuto da qualsiasi parte diventa la pretesa minima in qualsiasi altra destinazione», sentenzia Hugo Pinto, Innovation Officer COC di IBM durante il Festival of Media di Roma. L’Artificial Intelligence diventa un supporto fondamentale per alzare il livello di qualità dell’esperienza utente, «è capace per esempio di suggerire cosa succede al footfall se fuori piove, e che ricadute ci saranno sugli acquisti nel negozio fisico», continua.

Quando si parla di intelligenza artificiale, spesso salta alla mente la spaventosa immagine dell’inserviente robotico che segue il padrone. In realtà, questi particolari algoritmi possono svolgere compiti anche complessi, imparando dalle esperienze e diventando sempre più human aware. Watson, il prodotto di IBM che sta raggiungendo una diffusione capillare tra chi ha scelto di utilizzare questo tipo di tecnologia, non è altro che un set di capabilities: «processa informazioni che inserisco e le interpreta, generando poi una reazione. Questo, alla fine, è la scomposizione dell’intelligenza umana», spiega Pinto.

Al suo interno, perché sia uno strumento il più raffinato possibile, sono state inserite specifiche che spesso creano incertezza nella robotica. Il «Tone Analyser - ad esempio - è una decomposizione dei trigger emotivi nascosti dietro alla maniera di pronunciare una certa frase», o in altre parole l’analisi del tono di voce; «il Personality Insight è l’estrazione e l’analisi di uno spettro di attributi personali utili a capire gli actional insight», uno strumento che compila un riassunto della personalità sotto forma di un testo che esprime i comportamenti e i fondamenti sulla quale l’utente prende decisioni.

A cosa servono tutti questi strumenti? Possono avere molteplici utilizzi, per esempio l’analisi di una campagna pubblicitaria, il suggerimento degli insight da tenere in maggiore considerazione, il modo di parlare ai consumatori. Ricavare queste informazioni «è molto facile. Basta porre le domande, con un linguaggio naturale (lo stesso che si userebbe con un collega umano), a un tool che attiva il marketing assistant Lucy. Le risposte restituite saranno basate sull’analisi dei dati di prima o terza parte. Lucy è capace anche di generare segmenti, mettendo insieme qualunque tipo di dato, sia esso proveniente da social, siti o app, e permettendo la costruzione di messaggi altamente personalizzati», afferma Pinto.

La raccolta dei dati continua a crescere per mole e precisione, ma molti di questi non sono strutturati. I problemi nella loro interpretazione rendono difficile consegnargli un’utilità. «L’AI ha grandi potenzialità nel digerire tutti questi dati e farli entrare in un’analisi più completa e immediata. L’Artificial intelligence cambierà tutto, e non si tornerà più indietro», conclude.

Internalizzare il programmatic è possibile? Al Festival of Media la questione rimane aperta

Durante la kermesse romana ne hanno discusso, Marco De Patre, Italy country manager di Improve Digital; Simon Francis, ceo, Flock Associates; Alessandra Di Lorenzo, chief commercial officer, media & partnerships, Lastminute.com; Sebastien Robin, global programmatic director, Havas Media Group; ed Enrico Quaroni, regional director Southern Europe & MENA della compagnia americana Rocket Fuel

Qualche tempo fa, aziende di calibro mondiale come Kellogg’s, P&G e Unilever, avevano dichiarato la loro volontà nel voler internalizzare le competenze e le pratiche di programmatic advertising. Non era una missione facile, data la complessità del sistema e il forte grado di specializzazione delle risorse che ci mettono mano, tant’è che la sfida è rimasta in sospeso.

“Taking programmatic in-house: fact or fiction?”, si sono chiesti al Festival of Media. «Nel 2016 abbiamo ricostruito la nostra offerta, inserendo nella gestione interna Il programmatic», scansa subito ogni dubbio Alessandra Di Lorenzo, chief commercial officer, media & partnerships di Lastminute.com. L’altra campana è suonata invece da Sebastien Robin, global programmatic director di Havas Media Group: «Non abbiamo nessun cliente che ha portato al suo interno il programmatic. Quattro anni fa ci ha provato AirFrance, ma dopo due anni stava ancora lavorando con un partner esterno. A parte loro nessun nostro cliente ha espresso la volontà di internalizzare le pratiche di programmatic, anche se tutti continuano a parlare di trasparenza».

«Oggi non avrebbe senso non essere trasparenti. Noi abbiamo aperto i nostri processi ai clienti, il discorso trasparenza è parallelo a quello legato al valore portato dai nostri progetti. Se un lavoro raggiunge, o addirittura supera, gli obiettivi, perché dovremmo tenere nascosti i passaggi? Diamo accesso a tutti i livelli dei nostri processi e siamo full transparent», commenta Enrico Quaroni, regional director Southern Europe & MENA, Rocket Fuel. Le agenzie propongono un servizio che non è facile replicare, «però capitalizzano in un certo modo e hanno bisogni di fare margini», risponde Simon Francis, ceo, Flock Associates.

Sul piatto della bilancia ci sono dunque costi e valore: «Per risparmiare bisognerebbe buttarsi sulle inventory scarse - commenta Robin - , allontanandosi dalla direzione attuale, quella della premiumness. Quello che serve è un nuovo accordo di pricing tra agenzie e publisher, e ovviamente più trasparenza».

«Gira tutto attorno al valore. Quale valore porta un team al brand? Se questo è interno e usa un tool che è diventato una commodity, che senso ha avere un partner che fa quello che sappiamo già fare noi? Facciamo partnership solo con tech provider, perché lo sviluppo tecnologico è troppo complesso e costoso», continua Di Lorenzo.

«Il programmatic non è una soluzione che va bene per tutti - spiega Quaroni -. È uno strumento che si inserisce in un marketing mix. Non bisogna chiudersi in un silos. Il caso di lastminute.com è particolare per le caratteristiche della società e per il suo modello di business».

«Portare all’interno le skills copre buchi e attrae nuove risorse, ma il mondo tecnologico cambia sempre molto velocemente. Adesso che l’header bidding sta prendendo piede, come faranno? Dovranno fare acquisizioni? O dare il servizio in outsourcing?», risponde Simon Francis.

A volte le acquisizioni non bastano per supportare delle competenze così specifiche, specialmente se le tecnologie di riferimento sono in continuo cambiamento. Altre volte questo non è un problema. Qual è la risposta alla domanda a cui ha cercato di rispondere il panel? Forse è “Dipende”, dal modello di business della società e dal suo imprinting digitale.