Autore: Redazione
18/10/2017

La ricetta Open Influence: tecnologia e formazione per vincere nell’influencer marketing

La società americana di cui Karim De Martino è VP Business Development Europe dispone degli strumenti giusti per superare le barriere del settore e rendere più efficaci gli investimenti in un contesto in cui c’è ancora molto da imparare. E sul tema della trasparenza il manager afferma: «Occorrono regole chiare e di più ampio respiro»

La ricetta Open Influence: tecnologia e formazione per vincere nell’influencer marketing

L’influencer marketing è ormai una realtà di fatto per le aziende che investono in pubblicità. E il proliferare dei social network, su tutti Instagram, obbliga a prendere in considerazione questa attività di comunicazione all’interno dei piani media. È necessario, però, dotarsi degli strumenti e dei partner più idonei, in altre parole ai professionisti del settore. Ne è convinto Karim De Martino, VP Business Development Europe di Open Influence, che DailyNet ha incontrato a Milano. «Oggi Open Influence rappresenta una soluzione chiavi in mano e di sicura affidabilità grazie alla capacità di rispondere a tutte le necessità di chi vuole rivolgersi all’influencer marketing», ha dichiarato al nostro giornale. Secondo il manager, infatti, la società dispone di un know how tecnologicamente evoluto, costruito a partire da un’approfondita, continuativa analisi dei dati e supportato da un algoritmo di image recognition all’avanguardia grazie alla relativa partnership con Amazon Rekognition. «Il prossimo step sarà quello di rilevare e riconoscere i loghi che appaiono nelle foto e nei video», anticipa De Martino.

Dai dati alle scelte dei brand, fino agli influencer

Se i dati sono il pilastro dell’influencer marketing, un altro fattore di primaria importanza è costituito dai brand, ai quali spetta la scelta di rivolgersi a un influencer piuttosto che a un altro, e di fare tutte le valutazioni necessarie prima di avviare un ciclo di comunicazione. Dopo di che parte la campagna e la differenza la fanno l’influencer e gli strumenti messi in campo. « Come Open Influence, grazie ai nostri algoritmi, possiamo assistere le aziende nella scelta e individuazione dell’influencer, per poi accompagnarle durante tutta l’esecuzione dell’attività pubblicitaria». Oggi Open Influence lavora sia con clienti diretti sia con le agenzie, con una quota quasi paritetica, e a livello internazionale è impegnata nel processo di espansione in Asia. Ma qual è il modello di business della società? «Una volta fissato il budget, ne tratteniamo una quota senza chiedere fee aggiuntive». Normalmente Open Influence segue i clienti direttamente, anche se esiste una versione SaaS della piattaforma dedicata alle piccole imprese.

L’influencer marketing nel nostro paese

Se negli Stati Uniti l’influencer marketing è ormai parte integrante dei piani media dei brand, in Italia è ancora grande il margine di sviluppo del segmento. In altre parole il nostro Paese sconta un ritardo che lo stesso De Martino spiega da un lato con la più ridotta dimensione dei budget, e dall’altro con «un freno culturale» che limita l’adozione di una modalità di comunicazione assai più diffusa al di là dell’Oceano. Oggi gli ambassador del nostro mercato hanno un giro d’affari inferiore ad altri, con i più importanti che arrivano a guadagnare fino a 10-20.000 euro per un singolo post. Negli Stati Uniti le “armate social” Kim Kardashian, Selena Gomez, e altre top model, possono chiedere anche 200.000 dollari. Open Influence, racconta De Martino, ha un forte approccio consulenziale ed è in contatto con gli agenti dei più noti influencer.

Perché credere nell’influencer marketing

«Bisogna tenere a mente una cosa - ammonisce De Martino -: gli influencer non sono un media, ma dei veri e propri creator, capaci di dare vita a uno storytelling rilevante per il pubblico di riferimento». E la fisionomia degli ambassador varia in base alla loro “provenienza”. Gli youtuber, per esempio, generano un engagement molto elevato, arrivando all’8%, perché parlano a una generazione molto giovane, più avvezza al mezzo digitale. Poi ci sono gli influencer come Chiara Ferragni, che si posizionano davanti alle celebrities, notoriamente la categoria che produce minor coinvolgimento, «ma non per questo meno preziosa in relazione a determinati obiettivi di comunicazione come per esempio la reach». La piattaforma di Open Influence offre un quadro intuitivo dell’influencer, i suoi fan, il sesso, l’età, la loro provenienza: «con quest’ultimo indicatore che ci permette di scovare facilmente i fake e gli influencer che approfittano di questi metodi poco corretti».

Open Influence: missione educare

Open Influence ha annunciato la scorsa estate il proprio rebranding, abbandonato lo storico nome “Instabrand”. «Oggi il team locale sta crescendo di pari passo con il business - continua Marco Marranini, chief operating officer di Open Influence Europa - tant’è che Milano è sede delle attività europee e secondo ufficio per numero di dipendenti». Ma c’è ancora tanto lavoro da fare. «La nostra attività quotidiana è naturalmente orientata al business, tuttavia siamo fortemente impegnati a educare le aziende, i centri media e le agenzie più piccole: la priorità insomma non è vendere ma dare al mercato una evidente dimostrazione di quanto l’influencer marketing sia efficace». Open Influence opera con gli ambassador di medie-grandi dimensioni, preferendo lasciare ad altri operatori il presidio dei micro-influencer, mantenendo comunque rapporti con alcuni di essi. E da quando Instagram ha clonato diverse funzionalità di Snapchat, la società è più che mai concentrata sul social di proprietà di Facebook.

Il tema della trasparenza

Un altro dei cavalli di battaglia, peraltro connesso al lavoro di formazione, è il tema della trasparenza. «Il mercato necessita di regole chiare e purtroppo oggi si fa molta confusione. È vero: gli influencer utilizzano talvolta strumenti non legali scegliendo di comprare fan ed engagement, tuttavia le autorità che controllano la correttezza dei post pubblicitari dovrebbero agire con un’ottica più evoluta e di respiro internazionale. Prendiamo a esempio il caso della recente questione creatasi attorno alle modalità di segnalazione  dei post sponsorizzati della Ferragni, rea, secondo l’antitrust italiano, di utilizzare la dicitura #ad e non quella #advertising. Ma Chiara Ferragni ha più fan americani che italiani e paga le tasse negli Stati Uniti. Quindi è perfettamente in regola con le richieste della FTC, e sicuramente in buona fede», conclude De Martino.