Autore: Redazione
27/06/2016

La storia d'amore tra Under Armour e Droga5

L’azienda di performance apparel ha scoperto le potenzialità dell’advertising in un momento di crisi, e ha sviluppato due campagne interne dal successo contrapposto. Quando ha capito di aver bisogno di un punto di vista esterno la situazione è cambiata, soprattutto perché questo punto di vista è quello di David Droga. I due hanno raccontato la storia del marchio a Cannes

La storia d'amore tra Under Armour e Droga5

Quando Under Armour stava andando a picco, è stata la pubblicità a ripescarla e a trascinarla fino al suo valore attuale: 5 miliardi di dollari. L’azienda, pioniera nella produzione di performance apparel, navigava in cattive finanze, gli 1,3 milioni di euro fatturati nel ’98 non erano abbastanza nemmeno per produrre i free sample, quando nel 1999 ha deciso di lanciare la sua prima campagna.  

Under Armour, puntare sulla pubblicità contro tutti

“Abbiamo investito 25.000 dollari in una mezza pagina del magazine ESPN, ma nel board erano in molti a dissentire perché quei soldi servivano a coprire le spese di produzione”, spiega a Cannes Kevin Plank,  ceo e founder di Under Armour. Ma alla fine ha avuto ragione lui: la campagna è durata tre settimane, periodo nel quale la società ha raccolto 800.000 dollari ed è stata contattata da 8.000 retailer interessati ai prodotti. “Allora abbiamo avuto un’altra idea: rifacciamolo. Ma i risultati sono stati pessimi. Abbiamo sbagliato il soggetto dell’immagine. Ci hanno chiamato solo in 35 e abbiamo deciso di chiudere i rubinetti del marketing”, continua Plank.  

L'incontro con Droga5

La gestione delle attività pubblicitarie è poi rimasta interna fino a quando la società non si è guardata allo specchio e ha riconosciuto la mancanza di un punto di vista esterno per comunicare in maniera efficace. Detto fatto, la scelta è ricaduta su David Droga, creative chairman and founder dell’agenzia  Droga5, che ha accettato di partecipare alla comunicazione d’azienda perché “sono pochi i brand che hanno un punto di vista, e anche un ottimo prodotto”.
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Il rapporto tra brand e agenzia

La collaborazione è iniziata tre anni fa, col piede sbagliato: “Eravamo un pessimo cliente, perché non avevamo mai lavorato con un’agenzia. Io poi non mi fidavo proprio a permettere ad altre persone di prendere decisioni sull’azienda, fino a quel momento avevo sudato e faticato per definire ogni dettaglio” spiega Plank. “In realtà a me andava bene, perché la cosa che più intimidisce un’agenzia creativa è un cliente che dice sempre di sì. È il brand ad avere tutti i dati, e da li può ricavarne le risposte e criticare il nostro operato. Se annuisce sistematicamente non abbiamo punti di riferimento”, continua Droga.  

L'expertise dei creativi fa la differenza

Ma il creativo “aveva una comprensione del brand che noi non avevamo”, risponde Plank, e così si è instaurato un rapporto di fiducia e di apprendimento. Il marchio insegna all’agenzia i suoi protocolli, l’agenzia i comportamenti e i linguaggi più adatti. “Il segreto è credere veramente in quello che vendi. Se sei convinto che il prodotto che stai vendendo sia buono, la gente lo percepisce - continua Plank - . E noi abbiamo un gran prodotto e un forte punto di vista. Abbiamo impostato il marketing esattamente come i nostri meeting: questo è quello che vedo, questo è quello che penso e così è come dobbiamo comportarci”.  

Le scarpe di Stheph Curry

Una filosofia che li ha portati a rispondere con sangue freddo alle critiche sulle scarpe da “infermiera” che Steph Curry ha indossato durante le finali NBA: “Un cliente normale sarebbe entrato nel panico, si sarebbe ritirato, ritratto, ma loro l’hanno presa dal verso giusto e hanno subito pensato che fosse un’opportunità incredibile da cogliere al volo” spiega Droga. Il brand, a distanza di 17 anni vale circa 5 miliardi in più, e adesso è passata dall’invitato alla festa a cui nessuno fa caso a ricevere considerazione: “They finally care!” esulta Plank. E il merito è dell’advertising, e di chi lo sa fare.