Autore: Redazione
20/04/2016

La seconda giornata dell’Advertising Week di Londra

Diversi i panel organizzati, a partire dal Guardian che ha proposto una riflessione sui dati. A seguire Microsoft con l’intervento di Tejal Patel, director of consumer engagement, e la nuova ricerca di Google sul valore degli investimenti in video. Infine si è parlato di programmatic con Rubicon Project, prima, e Marco Bertozzi, poi

La seconda giornata dell’Advertising Week di Londra

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Anche i più grandi studiosi teoristi del linguaggio si sono ravveduti. Certo, una frase, un disegno, un gesto, può avere un significato di per sé, ma è necessario immergere la comunicazione in un contesto per dargli il suo reale senso. Senza scomodare Wittgenstein e la differenza tra il suo periodo filosofico pre e post guerra, e senza forzare troppo i paragoni, anche Mike Gaffney, cro Sharethrough, Darren Goldsby, chief digital & technical officer Hearst Magazines Uk, Nick Hugh, vp Emea Yahoo, Mari Kim Novak, cmo Rubicon Project e John Sheekey, general manager International Oracle Data Cloud, si sono trovati generalmente d’accordo su questa tesi nel panel “The Marketer’s Toolbox”, che è ripartito da questo tema per affondare riflessioni sulla condizione dell’advertising. È vero, i brand stanno affondando nei contenuti, ma fanno ancora troppo affidamento su Twitter e Facebook, cornici abbastanza anonime per inquadrare contenuti pubblicitari. “Le ads nel giusto contesto hanno un uplift del 35% maggiore rispetto ai social network” afferma Sheekey. E il native è quello che più beneficia dell’ambiente in cui è immerso. Ma se per Goldsby “ci sono diversi tipi di native, tra cui il contenuto editoriale, particolarmente efficace sulle audience perché è quello che tutti si aspettano”, invece “il contenuto è irrilevante se la qualità dei dati è alta. In questo caso il contenuto è così personalizzato che è quasi automatica la sua capacità di attirare gli utenti” ribatte Hugh. Comunque sia “siamo all’inizio dell’era del native advertising, e le possibilità sono enormi. Ma senza dubbio il mobile sarà il mezzo su cui questa esploderà con più potenza - evidenzia Novak - . Brand e contenuti si stanno avvicinando sempre più per accostare il messaggio agli utenti. I due si fonderanno fino al punto in cui sarà difficile dire se un contenuto è pubblicitario o solo un bell’articolo. Questo restituirà gran valore all’advertising”. Dati e misurazioni La terra sotto i piedi dell’advertsing digitale resta comunque una mistura di dati e strumenti per misurarli. Ma non è detto che le metriche adottate siano le più adatte. “Alcuni pretendono delle informazioni troppo specifiche sulle audience. Alla fine impostano le campagne su un target così stretto da rendere la stessa inefficace. Bisogna invece fare in modo che si valorizzino anche consumatori di altri cluster, aprirsi un po’ di più verso altri utenti. Il mio consiglio è: non innamoratevi troppo dei dati” spiega Sheekey, ma Hugh ancora controbatte: “i dati invece sono la valuta chiave, la qualità delle informazioni sta nel capire come gli utenti si comportano sui diversi dispositivi. Capire le audience crossdevice sposta gli equilibri”. Certo, però, che questi vanno usati con criterio. “La potenza dei dati è così grande che bisogna valutare il loro utilizzo – sottolinea Goldsby - . Capita infatti di ricevere ads su prodotti di cui non si è mai espresso un interesse. Questo spaventa i consumatori e certamente non fa bene al brand”. “Senza rinunciare a prendere qualche azzardo – puntualizza Novak -. Le enormi moli di dati che raccogliamo e proponiamo nel nostro marketplace indipendente sono tali da poter trovare applicazione in strategie crossmediali molto vaste. Si sta aprendo un periodo di testing molto eccitante”.   Le agenzie sono più esperte e i brand assumono specialisti. Adesso il dialogo programmatico crea davvero valore.
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Gli strilli che recitavano “il futuro è programmatic” riposano ormai sulla carta ingiallita. A oggi il programmatic è parte della quotidianità, e come tale ha perso la carica di entusiasmo del pacchetto appena aperto per attraversare il momento di analisi e approfondimento. Nell’intervento “The Future of Programmatic Debate”, parte della giornata numero due del The Guardian Stage all’Advertising Week di Londra, Marco Bertozzi, global chief executive, performance marketing Starcom Mediavest Group, Matt Adams, managing director iProspect, Dominic Perkins, digital commercial development director Time Inc., e Ruth Zohrer, head of programmatic marketing Mindshare, si sono spalleggiati in una serie di argomenti particolarmente caldi attorno alla situazione di questa tecnologia. Trasparenza e cooperazione prima di tutto Primo di questi la trasparenza. “C’è una sorta di ritrosia da parte dei media owner a condividere le informazioni -  spiega Zohrer- . Noi di Mindshare, invece, ci siamo promessi di consegnare agli advertiser tutti i dati di cui siamo in possesso. Se tutti seguissero questa strada raggiungeremmo l’obiettivo di rinvigorire una industry svalutata da cattivi attori”. Ma per stabilire nuovi obiettivi è necessario cooperare. “Stiamo cercando un modo per lavorare insieme agli altri attori. Gli editori si stanno applicando per monetizzare al meglio con il programmatic, ma bisogna fare gruppo, aprire una discussione costruttiva tra agenzie, publisher e partner tecnologici” spiega Bertozzi. “In realtà una delle sfide più grandi è all’interno dello stesso settore tech, nello specifico su come tutti i pezzi tecnologici possano lavorare assieme al meglio. I clienti stanno imparando come usare il programmatic e sono già a un buon livello di conoscenza, ma ora dobbiamo insegnargli come trattare i dati in modo da creare valore nel segmento viewability” aggiunge Adams. Il rapporto tra agenzie e advertiser ha subito però alcune frizioni nel tempo , “molti dei problemi tra i due sono nati dal fatto che gli interlocutori erano sbagliati. La maggiore cultura del segmento lato agenzia e l’assunzione di nuove risorse esperte in programmatic che si occupano di ciò che riguarda la tecnologia specifica all’interno dei brand sono fattori che hanno innalzato il livello della conversazione: adesso il dialogo tra agenzie e brand riesce davvero a trarre valore dagli investimenti” sottolinea Bertozzi. E a conferma di questo, Perkins racconta che il Time Inc. “ha assunto persone in grado di gestire tutti gli scomparti del programmatic, e ora è in grado di dare ai buyer quello di cui hanno bisogno. Dalla viewability al target. La prossima assunzione arricchirà l’area analytics”. Uno sguardo al fenomeno Ad Blocking L’adblocking, altro tema dilagante nelle pagine di marketing, costituisce una seconda area tematica della discussione. “Siamo di fronte a una chiamata da parte di questi strumenti. Mentre cercavano di  espandere il bacino delle ads ci siamo dimenticati delle persone. Dobbiamo fare un passo indietro e creare pubblicità che assomiglino a servizi, invece di cercare di estrarre soldi dalle tasche delle persone. Questa è la soluzione per riportare il programmatic fuori dall’angolino in cui è stato messo” ricorda Zohrer. Programmatic, un insieme di tecnologia e creatività Per i meno esperti, ma non solo, il programmatic è una criptica composizione di acronimi. Un tema spesso sottovalutato, ma che Zohrer riporta sotto la luce dei riflettori: “Parlando per acronimi abbiamo rovinato il settore. Quando le persone smettono di capire, smettono anche di utilizzare. È un danno, non solo per i brand, ma anche per l’audience”. In disaccordo Bertozzi: “Secondo me questa è una scusa che utilizzano i marketer più anziani perché non hanno voglia di imparare. Anche “tv” è un acronimo, ma con il tempo e con lo studio non è difficile raccapezzarsi tra queste sigle”. Quando si parla di programmatic, poi, viene naturale chiedersi del suo rapporto con la creatività. “Io vedo le cose o bianche o nere. Se possiamo dare valore a una campagna o a un brand lo facciamo, anche sul lato creativo. E in quel caso la marca diventa sia nostro cliente che nostro partner” specifica Zohrer. “I creativi, però, hanno dimostrato poca reattività rispetto all’evoluzione tecnologica. Quasi ogni giorno nascono nuovi formati adv, e non sempre i reparti creativi si applicano celermente per studiare un modo per sfruttarli” continua Bertozzi. “Quando i clienti ci assegnano i budget, noi cerchiamo di raggiungere i risultati che loro si pongono. Ma contemporaneamente testiamo nuove vie per sfruttare sempre meglio le loro potenzialità. È in questo che risiede la nostra creatività” conclude Adams.   Con il mobile, i banner spariranno nel giro di pochi anni, per lasciare spazio a native e social
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I banner su mobile non esisteranno più entro l’inizio del 2020. A dirlo è Tejal Patel, director of consumer engagement di Microsoft, nel corso dell’Ad Week London. “I Millenials tendono sempre di più a sacrificare la propria privacy. Ma non sono disposti a farlo per i banner”. Questo perché ci vuole un rapporto di scambio, che per essere valido, deve presupporre contenuto e rilevanza di contesto. E poi Patel ha rincarato la dose: “Penso che la parola banner non dovrebbe nemmeno esistere e probabilmente sarà così nel giro di tre, quattro anni, forse meno”. Anche Graham Moysey, head of international for Aol, che stava conducendo la sessione, si è trovato d’accordo. Gli annunci banner, secondo Patel, saranno rimpiazzati da un uso più intensivo della pubblicità nativa e da advertising veicolata direttamente sui social, due concetti di per sé molto vicini. La pubblicità in-app, tra efficienze e punti di domanda Patel ha quindi trattato il tema dell’efficacia degli annunci in-app. “Pensando dal punto di vista di un consumatore, sono davvero poco impressionata da questa tipologia di comunicazione. Qualcuno per favore può mostrarmi qualcosa di veramente creativo? Ancora non ho visto niente del genere”, ha provocato, sottolineando come in media vengano utilizzate solo 4-5 applicazioni delle decine che vengono scaricate. Location-based advertising, ancora tutto da dimostrare Patel ha criticato anche le prime perfomance della location-based advertising, dicendo che Microsoft ha condotto dei test in alcuni mercati, “In ogni caso - ha proseguito - il legame di questa pubblicità con gli acquisti è ancora debole”. Un problema, se si considera che location-based advertising ha dei costi più alti, con un’incidenza da non sottovalutare per quanto riguarda il Roi. “Ciò non significa che non funziona, magari per alcune cose come gli eventi può essere utile”, ha concluso. Microsoft è uscito dal business pubblicitario l’anno scorso, affidando ad Aol e Appnexus la vendita diretta e programmatica degli spazi pubblicitari delle proprie properties.