Autore: Redazione
12/01/2016

La Federal Trade Commission presenta una guida ai publisher per chiarire le idee sul native advertising

“Native Advertising: A Guide for Business” si pone l’obiettivo di capire cosa sarà considerato ingannevole quando si tratta degli sponsored content. La FTC ha inoltre individuato nel contrassegno attraverso un’etichetta la soluzione per diradare le confusioni sulla provenienza del contenuto

La Federal Trade Commission presenta una guida ai publisher per chiarire le idee sul native advertising

Come è naturale per tutti i formati pubblicitari, anche per il native advertising è arrivato il momento di un’analisi approfondita diretta alla tutela dell’utenza. È stata la Federal Trade Commission a prendersene la responsabilità, stilando delle linee guida dedicate a marketer e publisher con l’obiettivo di tracciare un sentiero chiaro nelle regole della pubblicità. L’agenzia ha pubblicato una vera e propria guida (Native Advertising: A Guide for Business) che chiarisce cosa sarà considerato ingannevole quando si parla di native: “Con l’emergere dei digital media e dei cambiamenti nelle modalità di monetizzazione adottati dai publisher, il native advertising, noto anche come sponsored content, che non è distinguibile dalle news, articoli, editoriali, intrattenimento, recensioni e normali contenuti, è diventata la scelta prevalente. Nei media digitali, un publisher, o una terza parte autorizzata, può facilmente e in maniera estremamente economica proporre inserzioni perfettamente coerenti con stile e layout dei contenuti in cui sono integrate, in un modo che non era disponibile nei media tradizionali. L’effetto è mascherare i segnali che i consumatori hanno imparato a riconoscere nell’advertising e i messaggi promozionali” dice la guida. Per regolare l’oscurità di questi messaggi la FTC ha individuato delle misure che partono da una considerazione “sarà considerato un messaggio ingannevole quello che ha un effetto fuorviante, per sua natura o fonte, su consumatori ragionevoli”. I messaggi native devono essere chiaramente riconoscibili grazie all’applicazione di un’etichetta che li segni come tali. Un messaggio promozionale non deve apparire o suggerire di essere qualcosa di diverso da una pubblicità, un indicatore dunque è necessario anche per quelle inserzioni che mostrano palesemente dei fini commerciali. Una disclosure risulta necessaria per prevenire confusioni, che a volte i publisher creano consapevolmente. La situazione italiana Lo Iab ha giocato d’anticipo con la costituzione di un tavolo di lavoro durante il 2015. «Il native per le best practise prevede una serie di formati contestualizzati ma bollati. Più che uno standard è una raccomandazione di buon comportamento, che in quanto tale non comporta nessun obbligo. A breve riprenderemo il tavolo di lavoro, di cui è già stata definita la composizione: prevederà la partecipazione di una decina di aziende e la coordinazione di Raffaele Cirullo, consigliere di Iab già attivo nella gestione dello scorso Iab Seminar dedicato al native. Le evidenze emerse durante le riunioni dello scorso anno suggeriscono che: il contenuto pubblicitario sia indicato come tale; il valore di questi formati è tanto più alto quanto più è efficiente la tematizzazione, la vicinanza a temi affini; i formati prevalenti sono widget, inseriti attraverso piattaforme di raccomandazione (per esempio gli articoli indicati con “leggi anche”), e l’integrazione sui contenuti all’interno del flusso degli articoli. Su questi ultimi argomenti abbiamo redatto una guida disponibile online e distribuita nel corso dello Iab Seminar sul Native Advertising del 2015», ha dichiarato Daniele Sesini, direttore generale di Iab Italia.