Autore: Redazione
20/04/2016

La seconda giornata della Ad Week di Londra

Nel giro di cinque anni tutte le forme cosiddette di “traditional media” potrebbero essere investite da un nuovo modo, automatizzato, di acquistare gli spazi pubblicitari

La seconda giornata della Ad Week di Londra

rubicon-project-300x225
Nel giro di cinque anni tutte le forme cosiddette di “traditional media” potrebbero essere investite da un nuovo modo, automatizzato, di acquistare gli spazi pubblicitari. Stiamo parlando del programmatic.È quanto è emerso nel corso della seconda giornata della Ad Week. Se già da qualche anno questa forma di compravendita degli spazi pubblicitari nel mondo digitale ha avuto largo spazio e successo, nei media tradizionali non è stato così. Ma come anticipato precedentemente, potrebbe averlo a brevissimo, anche se la strada non è del tutto in discesa perché le resistenze che si riscontrano nella “vecchia guardia” del mondo della comunicazione sono molteplici, a partire dalla “tech fear”, una sorta di malattia che affligge la classe dei giornalisti vecchio stampo e che frena i potenziali benefici che potrebbe portare all’intera industry. Questo è quanto emerso dalle parole dei relatori che ieri si sono succeduti sul palco dell’Ad Week londinese all’interno del panel “The future of automation” organizzato da Rubicon Project e al quale hanno partecipato Sky Media e Clear Channel. A dirigere i lavori c’era l’svp Europe della società Oli Whitten, il quale ha dichiarato che i colossi dell’ad tech dei grandi mezzi tradizionali preferiscono ancora tenersi lontani dal termine programmatic, preferendo invece utilizzare la parola “automazione” per definire il fenomeno. “Il programmatic sarà un sottoinsieme del più ampio gruppo dell’automazione. E tutto ciò che sarà scambiato tramite programmatic ne entrerà a far parte”. È questo il coro di voci che si alza dalla sala londinese. Grandi ambizioni e grandi verità Tra i primi a parlare nel panel targato Rubicon Project c’è stato Jonathan Forster, vp Emea di Spotify, il quale è intervenuto auspicando che l’intero business pubblicitario della piattaforma di music streaming in pochi anni sarà completamente automatizzato, con l’obiettivo principale di ridurre i costi dell’intero processo. Ha anche spiegato come già oggi il 70% delle revenue pubblicitarie di Spotify, in alcuni mercati, derivi dal programmatic. Allo stesso modo il direttore commerciale Uk di Clear Channel, Martin Corke, ha parlato delle ambizioni della company: essere automatizzata al 100% entro il 2020. Un obiettivo che Clear Channel condivide con tutte le aziende del settore ooh. Anche Theo Theodoru, di xAd, si è trovato d’accordo con quanto espresso dai colleghi, sottolineando l’urgenza di adottare processi più automatizzati. Infine, è stata la volta del capo del digitale di Sky Media David Fisher, il quale ha rivelato che il 20 - 30% delle revenue pubblicitarie provenienti dalla display advertising sono generati dal programmatic, aggiungendo che anche nel campo televisivo un buon 10% è riconducibile a questa modalità. Elementi di resistenza L’avvento del programmatic in tutto il mondo media, in particolare quello broadcasting, è frenato da alcuni aspetti legislativi. Oltre a questo, si aggiunga il fatto che molti operatori del settore, soprattutto agenzie, che non hanno l’expertise necessaria in questo campo preferiscono puntare su metodi più consolidati e tradizionali di trading. “Negli ultimi anni abbiamo sperimentato entrambe le metodologie di compravendita, sia in programmatic sia in modo tradizionale,e in certi casi alcuni inserzionisti hanno deciso, dopo averli provati entrambi, di continuare ad acquistare in modo tradizionale”, ha aggiunto Forster di Spotify. Primi passi verso una soluzione Tutti i partecipanti al panel, comunque, si sono trovati d’accordo nel confermare gli sforzi di collaborazione tra i vari media per arrivare ad avere un trading completamente automatizzato in cinque anni, a partire da Clear Channel. Thoedoru, infine, ha fatto luce sull’importanza dei dati in tutto questo processo, per capire meglio come la pubblicità stia cambiando e come sfruttarne al massimo le potenzialità. Dimenticate la tv! L’online video genera più Roi. E ciò è vero anche per YouTube In occasione dell’Ad Week Europe, Google ha pubblicato una nuova ricerca per comprendere il valore degli investimenti pubblicitari in video online comparati agli investimenti sulla tv. L’obiettivo è quello di aiutare le aziende a ottimizzare i budget sui diversi canali e comprendere con esattezza il ruolo svolto dai media digitali. L’analisi di 56 casi di studio raccolti in 8 Paesi tra cui anche l’Italia, è stata condotta in collaborazione con una serie di partner, tra cui BrandScience, Data2Decisions, GfK, Kantar Worldpanel, MarketingScan e MarketShare, e si è basata su metodologie condivise per comprendere a fondo l’esatta correlazione tra esposizione ai media e vendite offline. Ecco i principali risultati. - Rispetto ai livelli attuali di spesa, la pubblicità su YouTube ha generato un Roi superiore a quello della TV per quasi l’80% dei casi - Per oltre l’80% delle ottimizzazioni del media mix analizzate, i dati indicano che la spesa raccomandata su YouTube dovrebbe essere almeno doppia rispetto ai livelli attuali - Google è in grado di fornire dati più completi e approfonditi, da integrare negli strumenti di pianificazione del media mix aziendale, per dimostrare più efficacemente l’impatto che si può ottenere da un aumento della spesa su YouTube Anche in Italia il digital scavalca la tv Per quanto riguarda l’Italia, i risultati confermano la recente indagine di Mec, comScore e Millward Brown, secondo cui, sulla base di oltre 30 studi econometrici realizzati in diversi settori, le attività digital hanno mostrato un incremento del 30% rispetto al Roi della tv. La nuova ricerca di Google è importante per capire non solo i risultati offerti da ciascun mezzo in sé, ma anche, e soprattutto, per definire la combinazione ottimale dei diversi canali e massimizzare l’impatto.