Chiude la manifestazione nella capitale britannica. il focus stavolta è sul formato nativo, capace di monetizzare meglio gli spazi sul mobile, ma ancora poco duttile a livello creativo e piuttosto debole nell’attention spam
Dal nostro inviato a Londra Francesco Lattanzio
Native Advertising e le sfide del 2017: catturare l’attenzione e abbinare creatività e programmatic
Il formato nativo ha una grande capacità di monetizzare gli spazi degli editori sul mobile web, ma per evolversi deve lavorare su due problemi: la poca duttilità delle creatività native in relazione agli spazi dei diversi editori e la drastica riduzione dell’attention span Per la prima volta, nel 2016, il mobile ha raccolto la maggior parte degli investimenti pubblicitari digitali in UK. Una svolta che coinvolgerà presto gli altri mercati, stando alle previsioni e alle statistiche che hanno incoronato lo scorso anno per l’epslosione dei formati Native e i 12 mesi in corso come quelli in cui il segmento vivrà una espansione sostenuta e solida. Una caratteristica intrinseca del Native Advertising è la non-invasività, il rispetto per gli utenti. «Le nuove parole d’ordine da tenere sempre a mente quando si parla del segmento sono Attention e Mutuality. Bisogna concentrarsi su queste per non punire gli utenti che stanno spostando sempre più il loro consumo di internet dal desktop al mobile», ha affermato Ally Stuart, regional director EMEA di Sharethrough, durante l’Advertising Week.Il Native è la soluzione più valida per monetizzare il mobile internet, ha aggiunto Patrick Keane, presidente di Sharethrough. «Nel 2016 il display desktop adv ha raccolto 10,6 miliardi di sterline in UK, il native 13,5. La tendenza continuerà a favore di quest’ultimo anche nei prossimi 4 anni, quando il display perderà l’8% degli investimenti, mentre i formati nativi raggiungeranno una crescita del 116% fino a raggiungere un valore di poco superiore ai 29 miliardi di sterline”, ha continuato. È la categoria di advertising più diffusa sul device, è content driven e meno intrusiva. Inoltre, i feed sono la categoria di proposta contenutistica che più cattura l’attenzione degli utenti, ed è proprio quello il territorio in cui si inseriscono le Native Ads. “Il 50% della nostra inventory è già mobile, e diventerà 70% molto presto Il mobile è qui per restare. Non solo, il suo design influenzerà anche il desktop”, ribadisce Keane.
«Twitter, Pinterest, Facebook e Instagram hanno una cosa in comune: in nessuna di queste piattafore esistono forme di pubblicità intrusive. Le ads al loro interno sono perfettamente coordinate con la user experience naturale. I social sono stati pionieri in questo atteggiamento, e poi il web ha seguito il loro esempio producendo format dal look and feel identico ai siti in cui questi sono venduti», ha spiegato ancora Keane.
Oltre al vantaggio offerto ai publisher in termini di user experience, anche gli inserzionisti hanno il loro tornaconto: le Native Ads non sono solo viste, sono lette. Leggere influenza il cervello, aumentando la probabilità di brand recall. Il tempo impiegato per leggere le ads corrisponde a quello speso davanti a circa 300 banner; un dato che ne dimostra il risparmio economico, oltre alla maggiore efficacia.
Tutto sommato, gli elementi che compongono le native ads rimagono gli stessi dei banner - brand, logo, headline - ma sono integrati nei contenuti in un modo più naturale. Non bisogna aver paura di approcciare formati nuovi se questi favoriscono l’esperienza di chi va sul sito. «La stessa cosa è successa quando è stata proposta la produzione di video adv in autoplay audio-off. All’inizio i marketer non volevano assolutamente, poi hanno scoperto che il 79% dei millennials li preferivano a quelli con il volume acceso», ha spiegato Keane. «La user experience deve guidare la scelta dei formati».
L’attention span cala, ma le emozioni possono colmare il gap
Internet ha ridisegnato l’universo dei media, proiettando i mercati nell’era dell’Attention Economy. Ci sono sempre più contenuti da fruire, e diventa difficile capire quale scegliere. Le informazioni sono tante e tutte a portata di mano, per cui prima di ogni acquisto ci sono tutte le componenti per valutare il migliore tra i prodotti disponibili. In questo senso, l’economia dell’attenzione si riversa anche sull’advertising. «È difficile scegliere a quali metriche fare riferimento per valutare il successo di una campagna. Per esempio, le views portano davvero beneficio al proprio business? Guidano in qualche modo le vendite?», si è chiesto Luke Barnes, svp & commercial director di VICE.
«Nell’ante-internet era facile interpretare il livello di attenzione dei lettori/ascoltatori/spettatori. Adesso è cambiata la metodologia e sono stati integrati strumenti sofisticati, ma rimane ancora molto difficile capire cose i contenuti sono fruiti o solo aperti. Quello che possiamo fare è proteggere il nostro ecosistema», ha continuato. Questo significa, per gli advertiser, evitare di inseguire le views e provare a creare una brand perception più alta, essere smart e discerning. Gli editori, allo stesso modo, dovrebbero «smettere di cercare il sensazionalismo e i titoli gonfiati, per puntare a essere premium». Le piattaforme «hanno un ruolo di responsabilità, devono proporre ai brand ecosistemi che fanno al caso loro».
Alistair Shrimpton, Emea director of development di Match Group, suggerisce le emozioni come soluzione per recuperare l’attenzione degli utenti. «Su Tinder abbiamo creato campagne che ricalcano la user experience dell’applicazione, possono essere scartate con uno swipe sulla sinistra o accettate se spinte a destra. In questo caso l’inserzionista potrà proporre un messaggio diretto. Mantenere il product flow è fondamentale per non dar fastidio all’utente. L’attention economy richiede l’understanding di emozioni e dello human engagement. Questo vale sia per i contesti in cui vengono inserite le ads, sia per le ads stesse. Per la nostra piattaforma Match avevamo creato uno spot con l’obiettivo di umanizzare l’immagine perfetta inserita nella app di incontri da una modella. Le abbiamo fatto capitare un evento che ha messo a nudo una sua caratteristica imbarazzante portando alla luce il carattere emotivo. Le persone vanno conosciute per intero, non da una singola foto. Lo spot ha portato a un incremento dell’engagement a doppia cifra».
Content consumption, metriche e misurazioni
La scoperta dei contenuti, come detto precedentemente, è largamente guidata dai social soprattutto tra i target più giovani. I publisher stanno cavalcando bene questa possibilità, ma “i consumer non sono davvero coinvolti da quello che leggono. Il 79% dell’audience da un’occhiata veloce agli articoli, non si ferma a leggerli dall’inizio alla fine”, ha dichiarato Daniel Fisher, managing director di Playbuzz.
Questo problema si siede esattamente a cavallo tra la drastica riduzione dell’attention spam «che negli ultimi 5 anni è sceso da 12 a 8 secondi», ha riportato Jourdan Loffredo, Emea director di MOAT, e la mancanza di “metriche consistenti che indichino il successo dei marketer”. “La definizione di attenzione è questa: notare qualcosa e valutare se svolgere una conseguente azione”, ha aggiunto. La relazione con il marketing è evidente, e inserzionisti e investitori devono cercare una soluzione per giustificare i loro investimenti.
«In alcuni primi scroll di pagine editoriali ci sono fino a 6 ads, ma nessuno se ne ricorda più di 2. In più, comprando in programmatic capita di piazzare la creatività in spazi laterali e poco visibili. I consumatori stanno combattendo la battaglia per la ux a suon di ad blocker e gli advertser potranno solo subirne le conseguenze se non cambiano atteggiamento», ha continuato. MOAT ha lanciato lo scorso novembre «la soluzione MOAT Video Score, che comprende più di 50 metriche capaci di misurare l’attenzione degli utenti», ha concluso Loffredo.
Native, programmatic e creatività
Native e programmatic sono stati il formato e la tecnologia di compravendita più potenti dell’ecosistema digitale negli ultimi anni. Il loro matrimonio, però, si affaccia a diversi problemi. Il principale è relativo alla creatività. «La separazione tra la strategia creativa e quella di distribuzione rende difficile la consegna di ads fatte su misura per le varie destinazioni su cui appariranno. Diverse testate avranno ingombri diversi, e quindi non è facile sviluppare creatività che calzino in ognuna di esse», ha raccontato Dan Larden, global strategic partnership director di Infectious Media. «Educare i planning team a risolvere la questione della delivery può sicuramente aiutare a sviluppare il segmento, ma la vera sfida, qui, sta in mano ai creativi», ha risposto James Patterson, general manager UK di The Trade Lab.
«Quando si crea una campagna bisogna sviluppare sia l’attivation sia l’executon direttamente sui paradigmi del native, ma la verità è che il native non è mai parte delle conversazioni nelle agenzie”, è intervenuta Celine Saturnino, chief commercial officer di Total Media. Eppure, come ha riportato Michael Mullaney, director audience and programmatic di Yahoo, «Il native raccoglierà ulteriori budget provenienti dai banner e dalla search. È molto simile alle ads pagate sui motori di ricerca per elementi come il targeting». «Il display banner sta calando e continuerà su questi binari, lo spazio per il native si andrà via via espandendo», ha aggiunto Patterson. Perché le inserzioni funzionino al meglio, però, serve che siano fatte ad arte. Quando i clienti propongono creatività di dubbia efficacia, infatti, «dedichiamo alcune risorse del nostro team a ottimizzare l’ad e lo guidiamo al fine di migliorarlo il più possibile», ha spiegato ancora Mullaney.
«Questo è l’anno del native, e assisteremo a un’intersezione sempre maggiore con il programmatic. Gli editori stanno iniziando ad approcciarlo con una convinzione sempre maggiore», conclude proprio il manager di Yahoo. Vedremo se i creativi e le agenzie riusciranno a stare al passo e a salire su un treno che, a quanto dicono all’Advertising Week, appare dorato.