Dal Rapporto sul mercato del lavoro relativo al 2019 e al 2020 emerge un settore attrattivo, ma meno per i professionisti formati; anche l’occupazione femminile scende con l’avanzare dell’età
Le persone sono il più grande valore della industry della comunicazione. Lo ribadisce il rapporto di UNA sul mercato del lavoro nel settore della comunicazione in Italia. La ricerca prende in considerazione due periodi completamente diversi: il 2019 pre pandemico e il 2020 profondamente influenzato dal Covid. «L’anno scorso non l’abbiamo pubblicato perché uscire con dati del 2019 sarebbe stato fuorviante. Questa ricerca biennale, invece, ci offre molte informazioni sulla evoluzione che stiamo vivendo», dichiara Marianna Ghirlanda, CEO di DLVBBDO e Presidente Centro Studi UNA.
Alla survey hanno partecipato 172 agenzie e la prima evidenza è la composizione del mercato, per l’87% e oltre costituito da micro e piccole imprese, con fatturati che vanno da 1 a 10 milioni di euro all’anno. Quindi, un mercato frammentato, polarizzato tra Roma e Milano, dove quest’ultima la fa da padrone, in cui le grandi società da oltre 40 milioni annui rappresentano il 7% e le medie, da 10 a 40 milioni, il 6%.
Un mercato molto giovane sul fronte delle aziende perché il 61,5% di queste è nato nel Terzo Millennio con il traino del digitale, e il 2,8% dopo l’esplosione della pandemia, per rispondere con efficacia e rapidità alle esigenze di cambiamento che si sono imposte. Il settore è giovane anche sul fronte dell’impiego, con più del 53% del personale tra i 15 e i 34 anni, il 32% superiore alla media nazionale, mentre i cinquantenni e oltre rappresentano l’11,5% degli occupati, il 26,5% in meno rispetto al dato complessivo italiano.
Questo significa che l’industria della comunicazione è molto attrattiva ma non offre sufficienti prospettive di crescita per trattenere i professionisti più adulti: «Il settore è super dinamico, però non è in grado di far crescere in maniera omogenea le persone, e dove l’ageing può essere un tema da valutare e interpretare», commenta Ghirlanda.
Lavoratori per classi di età; fonte, Indagine UNA 2021
L’occupazione femminile
Dalla ricerca emerge il tema donne, più rappresentate per numero totale di dipendenti e superiore alla media nazionale, ma il trend congiunturale legato alla pandemia conferma anche nel settore della comunicazione un calo importante dell’occupazione femminile, attualmente al 50,3% - contro il 49,7% degli uomini – mentre nel 2019 si aggirava intorno al 65%. Non solo: a fronte di un 41,8% di donne in ingresso negli organici, quelle in uscita sono il 58,4%, soprattutto per effetto delle maggiori responsabilità di gestione famigliare e di assistenza ad anziani e malati che si sono riversate sulle loro spalle.
E nonostante le donne siano numerose, la loro presenza all’interno dei board di direzione delle società intervistate si ferma al 35,8%, contro il 64,2% degli uomini. «La cosa interessante è che, laddove le donne sono rappresentate nel board, si tratta di agenzie molto piccole» sottolinea Ghirlanda, e in particolare nel 55% dei casi in cui il board è composto da una sola persona (61%). Sono in maggioranza donne anche le persone messe in cassa integrazione, 56,2% contro il 43,8% degli uomini. Si verifica anche per l’occupazione femminile l’inversione di tendenza relativamente alle fasce d’età: dal 58,5% di 15-34enni impiegate nelle agenzie di passa al 9,4% delle lavoratrici tra i 50 e i 64 anni, evidenziando le difficoltà incontrate dalle donne nel mantenersi attive nel settore con l’avanzare del tempo: «Questo vuol dire che le nostre agenzie non sono luogo di lavoro adatto a donne di età matura. Possiamo legare questo dato al momento storico attuale, ma in realtà esisteva anche prima, dovuto ai ritmi e all’impegno richiesto».
Esattamente l’opposto di quanto accade a livello nazionale nel comparto servizi, dove il 18% è tra i 15 e i 34 anni, e l’82% è tra i 35 e i 64; più contenuto il divario nel settore UNA, in cui della fascia 35-64 lavora il 41,5% contro, appunto, il 58,5% delle più giovani. In conclusione, «la pandemia ha rallentato i processi di riduzione del gender gap e in generale tutti i trend legati all’inclusione, e la fuoriuscita di personale femminile dal mondo del lavoro ha accentuato questo effetto». Comunque, per quanto di grande attualità, il settore non è ancora particolarmente attivo sul tema Diversity & inclusion, poiché solo il 17,9% dei rispondenti dichiara di aver predisposto programmi in questo senso, mentre l’82,1% dichiara di non disporne.
Smartworking e cassa integrazione
La delocalizzazione del lavoro ha avuto un impatto fortissimo sul settore, sebbene lo smartworking fosse già praticato dal 42% circa delle aziende nel 2019. Nel 2020 si sale al 100% o quasi, in quanto solo il 2,63% delle società intervistate non l’ha attivato, e il 15,8% lo ha attivato per tutto l’anno. In ogni caso, è destinato a rimanere: un terzo dei rispondenti ha dichiarato di volerlo adottare al 100%, un altro terzo fino al 50% e solo il 14,5% circa prevede di non mantenerlo.
Per quanto riguarda la cassa integrazione Covid (CIG-COVID), il 67,79% delle società rispondenti dichiara di aver fatto ricorso nel 2020, mentre il 32,21% dichiara di non averla utilizzata. Solo il 7,5% ha fatto ricorso alla CIG (FIS) prima dell’emergenza COVID. Come già sottolineato, la CIG (FIS) ha riguardato il 56,2% delle donne e il 43,8% degli uomini.