Con l’intensificarsi dell’interesse dei colossi della consulenza nei confronti del mondo della pubblicità, il presidente di AssoCom, Emanuele Nenna, apre una più ampia riflessione riguardo la nostra industry e sul ruolo che può e deve ricoprire la creatività
Articolo a cura di Emanuele Nenna, presidente di AssoCom
Si legge che i colossi della consulenza, capitalizzati molto più dei colossi della comunicazione (pare che Accenture lo sia sei volte più di Publicis e quattro più di WPP), stiano pensando a clamorose acquisizioni nel mondo della comunicazione. E ci si interroga sulle conseguenze eventuali. Non so se davvero succederà qualcosa del genere, ma la cosa che giudico positivamente è il fatto che questa opzione apra un dibattito, costringendoci a porci le solite domande (tipo “quale sarà il futuro della nostra industry?”) in modo ancora più profondo e serio. Forse una nuova profonda mutazione del mondo della comunicazione è in arrivo.
Credo che Assocom, l’associazione delle aziende di comunicazione, quella che partecipa alla definizione degli strumenti di rilevazione ufficiali (attraverso le Audi), che dialoga con i clienti su temi relativi a trasparenza e remunerazione, e che quindi indirizza il mercato, debba approfittare di questo momento per portare la discussione dal piano della cronaca e del commento “da fuori” a un momento di autoanalisi dell’intera industry. Costruttiva, ovviamente. Per poi contribuire al dibattito con un punto di vista autorevole.
Sono tantissimi gli spunti su cui riflettere. Ad esempio: ci lamentiamo (tutti noi che facciamo comunicazione) della scarsa remunerazione del nostro lavoro, del fatto che – rispetto a un passato troppo spesso e ingenuamente rimpianto - non riusciamo più a farci riconoscere il giusto valore per il pensiero che generiamo, e che vendiamo. Mentre le “major” dell’advisory strategico sono evidentemente maestre nel farsi ben pagare la loro consulenza. Forse perché da sempre parlano di business, prima di tutto? In ogni caso, da questa premessa derivano domande a cui non so rispondere ma che stimolano le mie riflessioni. Eccone alcune: se un team creativo lavorasse per una delle Sette Sorelle, sarebbe venduto al giusto prezzo? La creatività tornerebbe a costare tanto, e quindi a valere tanto? Il talento creativo davvero rischia di essere schiacciato e svalutato dai numeri e dai processi, o potrà al contrario essere valorizzato da un approccio consulenziale? Un media planner con il biglietto da visita di Accenture sarebbe ascoltato dal top management più facilmente? E le gare: quante gare fanno McKinsey o PWC? Ne faremmo di meno anche noi se fossimo “colonizzati” da queste enormi potenze mondiali?
Dobbiamo temere o auspicare la discesa in campo (nel nostro campo di gioco) di questi nuovi player? Dobbiamo allearci con loro o compattarci per affrontarli e difenderci? Dobbiamo mutuare i loro modelli, modificando i nostri, o dobbiamo contrapporre al loro stile quello che ci caratterizza storicamente, esasperandone le differenze?
Chi è stato a IF! avrà sentito più volte ribadire, anche da diverse autorevoli voci internazionali (tra cui quella illuminante di Ben Jones di Google), un punto di vista che riporto e sottoscrivo: dati, processi, analisi, tecnologia sono ormai imprescindibili, fondamentali per indirizzare qualsiasi strategia di comunicazione. Sono un trampolino da cui può essere spiccato un volo molto più preciso che in passato. Ma la qualità del volo non dipende solo dal trampolino. Dipende anche dal talento (strategico, creativo) di chi salta. Basandosi sui numeri si è (quasi) certi di non sbagliare. Ma la differenza (quella a cui si dovrebbe puntare), in comunicazione - e nel business che ne deve derivare - la si fa con l’invenzione, con le idee uniche e differenzianti. Quelle che generano discontinuità, che si fanno notare e che rimangono nel tempo. E per quelle servono - e serviranno sempre - quei cervelli che (oggi) vivono nelle nostre agenzie.
Se i big della consulenza volessero negare il valore del nostro mestiere, la nostra risposta dovrebbe essere una sola: guerra. E vedremmo, al di là della dimensione degli arsenali, chi la spunterebbe alla fine. Di certo un’associazione come Assocom sarebbe in prima linea nella battaglia.
Ma se l’interesse di Deloitte & Co. verso il nostro mondo nasce dalla presa di coscienza che alla loro cultura, e quindi alla loro offerta, manca una parte importante, utile, che finora avevano sempre sottovalutato e che ora si rendono conto essere indispensabile, non è detto sia una cattiva notizia.
Avere qualcuno che, dall’alto della sua credibilità storica di business partner delle aziende nostre clienti, educasse il mercato a dare più valore alla comunicazione, a non banalizzarla, potrebbe aiutare tutti. Ai singoli professionisti, e alle aziende che vendono comunicazione, che siano agenzie creative o di pr, centri media o digital agency. A me fa paura chi dà per scontato la strategia, chi regala la creatività, chi ci mette un po’ di PR incluse nel prezzo, chi si improvvisa media planner o organizzatore di eventi solo perché c’è un pezzettino in più di budget da prendere. Ho paura di chi accetta condizioni commerciali inaccettabili per avere un cliente in più sulla sua lista, o partecipa a gare affollate che finiscono senza esito. Così sì, si cancella il senso del nostro mestiere: e lo stiamo facendo noi.
Ecco, non credo ci sia un solo modo di guardare le cose che accadono. Ovviamente io non so quale sia quello giusto, né dove davvero stia andando il mondo. Personalmente disapprovo chi titola che è finita l’era della creatività e delle agenzie, ma non mi schiero nemmeno con chi si barrica in casa per paura di un nuovo nemico.
Parliamoci. Confrontiamoci all’interno dell’associazione, che esiste anche per questo. Miglioriamoci, valorizzando i nostri punti di forza e lavorando su quelli di debolezza. Magari ne usciremo più forti. Magari solo un po’ diversi (e del resto sono anni che ci stiamo trasformando, per sopravvivere). Quello che è certo è che non possiamo solo stare ad aspettare che il futuro accada.
p.s. L’utilizzo del termine “barbari” riferito ai grandi della consulenza non è denigratorio, nessuno ne abbia a male: è una metafora (peraltro vagamente impropria in questo contesto) rubata a uno dei miei maestri nell’arte di osservare il mondo e dubitare: Alessandro Baricco.