In questa rubrica sull’Influencer Marketing, gestita da Open Influence, si è spesso parlato di trasparenza e della necessità di regolamentare il settore. Karim De Martino ha intervistato Vincenzo Guggino, Segretario Generale dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria per fare il punto sulla situazione in Italia.
a cura di Karim De Martino (karim@openinfluence.com)
D: Dott. Guggino, lo IAP è stata la prima istituzione italiana a realizzare una guida pratica alla trasparenza negli Endorsement da parte di celebrity, influencer e blogger. Da cosa è nata la necessità di realizzare la Digital Chart?
R: L’Autodisciplina italiana essendo espressione della business community ha una percezione sempre anticipata riguardo alle regole che occorrono in relazione a un determinato sviluppo tecnologico e professionale. Così è stato ad esempio sulla regolamentazione della pubblicità comparativa diretta da noi introdotta un anno prima dell’entrata in vigore della legge, così ora riguardo all’influencer marketing. In questo caso le novità connesse alla comunicazione digitale ci hanno suggerito di trovare un momento di “intermediazione” tra il principio generale della trasparenza della comunicazione e le modalità operative per renderlo effettivo. Questo luogo ideale è appunto la Digital Chart, che ha avuto e ha anche un valore definitorio e culturale. La nostra esperienza maturata in oltre 50 anni di storia è che lo sviluppo del mercato e la salvaguardia degli strumenti di marketing passano attraverso la correttezza verso il pubblico dei consumatori e dei concorrenti leali.
D: Che differenza c’è tra la Legge Italiana e le best practices indicate nella Digital Chart? Chi detta le regole?
R: Schematicamente possiamo dire che mentre tutti i cittadini sono sottoposti alla legge, le regole autodisciplinari possono essere applicate solo nei confronti di chi aderisce al nostro sistema. Tuttavia le regole IAP possono essere applicate anche a soggetti non aderenti che abbiano un rapporto contrattuale con un soggetto aderente. Ad esempio un influencer che non aderisce al sistema dovrà accettare regole e decisioni autodisciplinari nel momento in cui svolge un’attività promozionale a favore di un’azienda aderente. E va aggiunto che le principali aziende che investono in pubblicità aderiscono al sistema.
D: All’estero esistono regolamentazioni molto più stringenti rispetto alla Digital Chart. La FTC in Usa ad esempio pone sullo stesso piano il pagamento in denaro e quello in prodotti omaggio. Gli influencer Americani sono tenuti a esplicitare se il post che stanno realizzando per un hotel o una località turistica è fatto in cambio dell’ospitalità. In Italia il cosiddetto “cambio merce” (anche attraverso prodotti omaggio) è ancora poco trasparente, come vi ponete nei confronti di queste attività non pagate in denaro, ma di fatto promozionali?
R: Anche nella nostra DC prendiamo in considerazione queste ipotesi, per esempio l’invio occasionale di prodotti gratuitamente o per un modico valore deve essere segnalato con avvertenze idonee, quali ad esempio: “prodotto inviato da…” con l’indicazione del brand del prodotto. Qualsiasi tipo di connessione materiale tra influencer e imprese deve essere dichiarata, quindi se in ipotesi si è invitati a un evento o si è ospitati in una località turistica le foto postate devono dichiarare che si è stati “invitati da…”. La natura commerciale della comunicazione deve sempre essere riconoscibile come tale.
D: Un’altra direttiva della FTC pone l’accento sul fatto che l’influencer sia tenuto a esplicitare la natura promozionale anche quando già sta utilizzando i tool forniti dai social network (ad esempio il brandedtool di Facebook e Instagram). Quindi #ad va messo anche quando già compare “Collaborazione a pagamento con…” in un’ottica del non dare niente per scontato. Lo ritenete eccessivo?
R: Nella Digital Chart si afferma che uno dei modi per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati in rete è quello di inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post una dicitura chiara volta a far capire che si tratti di pubblicità: i tool offerti da alcuni social network vanno in questa direzione. È ovvio che trattandosi di un tag che viene aggiunto bisogna tenere in considerazione anche il rischio che dopo un certo periodo possa essere facilmente rimosso e il contenuto promozionale perdere così la propria identificabilità come tale. Nell’ottica di non dare nulla per scontato, potrebbe non essere eccessivo un ulteriore elemento di disclosure anche nella didascalia.
D: Un altro tema caldo è quello delle storie in diretta. Spesso gli influencer le utilizzano per raccontare le loro esperienze con i prodotti (anche fornendo codici sconto) o per documentare eventi organizzati dai brand ai quali vengono inviatati. Raramente però le storie includono un disclosure chiaro in ogni frame. Cosa dovrebbe fare l’influencer per essere in regola con la Digital Chart?
R: Le stories sono un prodotto particolare perché hanno una durata temporale molto limitata. Anche in questo caso però occorre introdurre accorgimenti idonei a renderne nota la natura promozionale, con scritte sovrapposte direttamente sul contenuto della story e, se possibile, con una dichiarazione verbale all’inizio della storia che si tratta di pubblicità.
D: Nel caso delle storie quindi il fatto che vengano cancellate dopo 24 ore non solleva in qualche modo l’influencer dalla responsabilità del disclosure? E cosa dire di quelli influencer che pubblicano contenuti senza l’hashtag #ad per non fare sembrare che stanno facendo una promozione e poi lo aggiungono dopo qualche ora, quando ormai il post ha raggiunto il top delle visualizzazioni?
R: Il principio della trasparenza della comunicazione commerciale è assoluto, non vi sono eccezioni per la breve durata della comunicazione, o se vi sia un “ravvedimento operoso” in itinere, perché come è stato detto tale norma è a presidio della correttezza delle relazioni con il pubblico dei consumatori e della lealtà del mercato. Peraltro si consideri che Instagram prevede due strumenti che in qualche modo mettono in discussione la durata in senso assoluto di sole 24 ore della “storia”: oltre all’archivio cloud dove tali contenuti possono essere salvati ed essere quindi nuovamente condivisi e rivisti, anche la sezione “Highlight” degli account, ove le “stories” possono essere messe in evidenza dell’utente e saranno quindi sempre visibili da chi visita il suo profilo.
D: Un’altra delle cose che spesso sentiamo dire a difesa degli influencer è “tanto fanno tutti così” e, probabilmente, non vi è neanche una percezione che il mancato rispetto delle regole abbia delle conseguenze. Ma cosa rischia veramente un influencer che fa pubblicità occulta? Cosa comporta una vostra “ingiunzione”?
R: Partiamo intanto dalla dovuta premessa che “legale” e “corretto” oltre che ad essere valori etici sono punti di forza utili per lo sviluppo del business. La differenza tra una comunicazione di qualità e una non di qualità innanzi tutto deriva dalla correttezza della comunicazione che si traduce in affidamento da parte del pubblico rispetto al messaggio e a chi lo diffonde. È pensabile che il pubblico sia contento di scoprire che un messaggio di un influencer, all’apparenza disinteressato e frutto di una libera opinione, sia invece stato determinato da un compenso ricevuto da un’azienda? Un comportamento scorretto da parte di un influencer violando sia il codice di autodisciplina che la legge (che ricordiamolo anche se non disciplina espressamente l’influencer marketingpone anch’essa il principio della trasparenza della comunicazione) comporta che se quel messaggio viene ritenuto non conforme al codice di autodisciplina non possa essere più diffuso in quella forma omissiva, e se invece investigato da organi di controllo dello Stato può arrivare ad essere sanzionato fino a 5 milioni di euro. Va anche aggiunto che se l’influencer ha disatteso il contratto siglato con un’azienda ne risponde a quest’ultima anche con possibili penali contrattuali e/o risarcitorie.
D: Sempre parlando di responsabilità, quanto sono responsabili e perseguibili il cliente che ingaggia un influencer o l’agenzia che lo rappresenta, nel caso in cui il disclosure non sia chiaro?
R: Le norme autodisciplinari poste a presidio della correttezza della comunicazione commerciale hanno l’obiettivo di eliminare e/o correggere i messaggi che sono stati ritenuti scorretti. Da sempre nel diritto della comunicazione commerciale la responsabilità del messaggio in termini generali ricade primariamente sull’impresa committente i cui marchi sono posti in evidenza e a favore della quale la comunicazione promozionale è svolta.
Nel caso dell’influencer marketing il ruolo che un’impresa svolge nel controllo della comunicazione può però variare sensibilmente. Può esserci un controllo diretto su tutti i contenuti, oppure una generale indicazione di linee guida per lasciare alla creatività dell’influencer la realizzazione finale o addirittura si può trattare di una spontanea iniziativa dell’influencer del tutto estranea al mandato ricevuto dall’azienda. Tuttavia in linea generale, oltre alla responsabilità dell’influencer che in ipotesi non ha seguito le indicazioni che gli erano state impartite, un’impresa nel momento in cui abbia stipulato un accordo per la promozione del proprio brand dovrebbeesercitare un’attività di verifica e controllo sui contenuti, ferme restando le garanzie contrattuali che le permetteranno di rivalersi nei confronti dei soggetti che non hanno agito con diligenza.
D: Guardando quello che succede su Instagram sembra che la trasparenza sia ancora presa molto sottogamba, molti influencer non sono neanche coscienti dei loro doveri ed eseguono alla lettera i brief delle agenzie, che a loro volta spesso non conoscono le regole. Cosa possiamo fare di concreto per cambiare la situazione?
R: Bisogna innanzi tutto diffondere cultura delle regole e in particolare cultura della “disclosure”. Aumentare il dialogo con gli influencer e arrivare a ipotizzareanche una categoria associativa per essi all’interno dello IAP così come avviato dall’autodisciplina francese. Bisogna poi che gli influencer si rendano conto che la trasparenza non solo non “influenza” in negativo l’efficacia della comunicazione ma anzi aumenta la fiducia del pubblico in chi comunica. Chi invece rifiuta questo switch, che prima ancora che giuridico è culturale, è destinato a fare i conti prima o poi con il suo pubblico e con le sanzioni delle autorità preposte.