Il ceo di Publicis Italia & global chief creative officer di Publicis WW commenta a DailyMedia i riconoscimenti ricevuti al Festival di Cannes dalla sua agenzia per Heineken
Al Festival di Cannes 2017 c’è stata una doppia soddisfazione per Bruno Bertelli, ceo di Publicis Italia & global chief creative officer di Publicis WW, per l’oro e l’argento ottenuti con due diversi tagli dello spot “Jackie”, ideato per Heineken, e di cui è protagonista il mitico campione di F1, Jackie Stewart. Una è legata al fatto che è anche global leader del network su questo cliente, e l’altra è che, commentando con DailyMedia la doppia vittoria nella categoria “Film”, può spiegarne la differenza rispetto ai molti altri lavori di tono “sociale” che hanno vinto medaglie, e anche di più, a questa edizione del Festival ma che, magari, si sono avvantaggiati dei loro aspetti emotivi per incantare giurie non del tutto esperte.
«Nel nostro caso - spiega Bruno Bertelli - è stata riconosciuta, invece, la consistenza e coerenza con cui Heineken sta affrontando da tempo il tema del guidare bevendo in modo responsabile dopo la sua decisione di sponsorizzare la F1. Non a caso, negli ultimi anni, su questo filone, abbiamo già vinto un argento e un bronzo. Naturalmente, la presenza di un personaggio così popolare aiuta la veicolazione del messaggio e l’impatto su chi vede il filmato, ma quel che conta sono i ritorni in termini di credibilità e immagine che questa campagna sta generando per il brand».
Allargando il discorso anche a conclusione di un Festival sulla cui organizzazione e missione sono emersi molti punti interrogativi, Bruno Bertelli sottolinea, infatti, come, per lui, oggi più che mai, sia fondamentale l’efficacia della comunicazione, relativamente agli obiettivi che di volta in volta essa si dà. «È questo - dice - che Cannes deve tornare a mettere al centro del suo focus, dando più peso ai grandi investitori e ai grandi brand. Per vari motivi, Cannes è stato ribattezzato come il Festival della creatività, ma sempre di pubblicità, alla fine, si parla. Quindi, sono anche contento che si sia aperto un dibattito sul ruolo di manifestazioni come questa, perché solo se si dimostra che l’idea creativa è efficace si può convincere le aziende che è rilevante per il loro business e che ha senso, per loro, investire sempre di più».
Il commento
Re Cannes, dunque, è nudo. E a svestirgli gli indumenti - ovviamente griffati - è stato il nuovo capo di Publicis Groupe, Arthur Sadoun, con l’annuncio schock che tutte le sue agenzie non parteciperanno, fino alla fine del 2018, a nessun premio, per indirizzare i relativi costi verso altre iniziative. Ma dietro alle affermazioni di saving c’è ben altro, tanto che che gli organizzatori della manifestazione si sono precipitati dai principali clienti internazionali per vedere che fare. Rivolgendosi agli interlocutori sbagliati, però, perché non tanto con loro dovrebbero confrontarsi, ma con le holding di comunicazione da cui sono emersi i malumori e, semmai, con gli over the top che, ormai, incombono anche sulla Croisette, oltre che sui mercati.
Quest’anno, l’organizzazione del Festival potrebbe aver raggiunto i 50 milioni di fatturato e l’idea che il castello di sabbia crolli la terrorizza. La macchina da soldi che ogni anno porta a generare nuove, e spesso incomprensibili, categorie per fare soldi sta per saltare. Venerdì scorso, il grande capo della filiale italiana di un grande network ci ha raccontato che la sua iscrizione gli costa circa 4.000 euro e solo così può accedere a uno dei grand hotel fronte mare, sul cui prezzo ed eventuali interessi degli organizzatori è meglio sorvolare. Un lavoro, poi, come detto, dev’essere iscritto in almeno venti categorie per sperare di vincere qualcosa, appunto con relativi costi.
Il modello-Cannes sembra non funzionare più e pare legato alla triste visione di qualche pensionato in doppio petto al passeggio con il barboncino sul lungo mare e quindi da spremere fino all’ultimo cent. Al Festival, che sembra ormai un supermercato, non c’è più tempo per ragionare; il futuro, che è già presente, incombe e il passato sta tramontando. La richiesta che viene dalle holding è di rifocalizzare il Festival e forse di spostarlo altrove, in una grande capitale dove la comunicazione si leghi al business e non agli aperitivi.Milano, tra l’altro, può candidarsi, perché no? Le strutture le ha ed è un terreno neutro rispetto a Parigi, Londra o New York. Ultima nota sull’Italia che, da una rassegna che si è normalizzata, non ne esce neppure male, con molti premi e shortlist fino a qualche anno fa impensabili.