Il dc dell’agenzia che ha ideato la comunicazione per il brand che sta suscitando attenzioni e polemiche, spiega come sia il frutto di una precisa strategia condivisa con il cliente, basata sulla convinzione che, ormai, le marche “appartengono” alle persone
«Ovviamente non potevamo aspettarci, né noi né, credo, l’azienda - al di là del fatto che sia in agenzia sia in Bauli, a cui fa capo il marchio, si sperava che succedesse - che la campagna suscitasse le reazioni che si sono innescate a catena subito dopo l’uscita del primo spot. Ma, in ogni caso, almeno per quanto riguarda noi di Saatchi&Saatchi, il dibattito che i commercial per i Buondì Motta hanno fatto esplodere vale soprattutto come incoraggiante conferma del fatto che, nell’ideazione di una comunicazione, conta decisamente molto la determinazione nel voler cercare di gettare sempre il cuore oltre l’ostacolo». È, questa, la prima considerazione che Alessandro Orlandi, direttore creativo della sigla di Publicis Groupe, che l’ha realizzata, fa a fronte della richiesta da parte di DailyMedia di commentare l’incredibile riscontro, virale e non, che hanno avuto e stanno avendo i due commercial già on air con gli altrettanti asteroidi che piombano su madre e padre che hanno osato irridere le richieste per altro debitamente petulanti della loro figlia di avere una colazione che “unisca la bontà alla leggerezza”.
«Può darsi anche - prosegue Orlandi - che lo “scompiglio” sia creato in parte dal fatto in sé che il genere “black humor” non è esattamente nelle corde degli italiani, alcuni dei quali possono essere legittimamente suscettibili di fronte pure a una narrazione pubblicitaria: ma, per agenzia e azienda, l’aver “osato” in una logica disruptive, fa parte di una precisa e condivisa strategia mirata alla ridefinizione del brand. Così, abbiamo già fatto con il Panettone in occasione delle scorse festività natalizie, ironizzando sui “trend” vegani, e così sarà per il prossimo commercial che stiamo preparando per questo prodotto».
La seconda considerazione - anch’essa debitamente “provocatoria” che Orlandi fa è ancora più generale: «Le marche - prosegue - ormai non “sono” più nemmeno delle aziende, ma delle persone, quelle che sono anche i consumatori ma che, soprattutto, scelgono di farle diventare parte della loro vita partecipando agli stimoli che un brand è in grado di suggerire loro. Quando questo succede, il “tone of voice” proposto diventa un linguaggio nuovo, un “meme” con cui esprimere i propri pensieri su argomenti più o meno seri, dalla politica al calcio. E questo succede solo se si riescono a far saltare le regole: che, lato agenzia, significa proprio mettere in discussione, in questo caso, la “retorica” del mezzo televisivo e della pubblicità che per lo più veicola, come nei due spot per Buondì già apparsi, nei quali, come si vede, saltano anche certe regole del marketing, con metà del secondaggio in cui il prodotto non c’è e l’altra metà in cui appare solo quello».
Orlandi sottolinea che tutto questo non avviene per caso ma sulla base dell’analisi di strategic planning sul target, mentre alla creatività spetta il compito non di “far meglio” ma qualcosa di “diverso”: soprattutto rispetto alla diretta concorrenza del brand, magari sostenuta da investimenti molto più alti. «Poi - conclude - c’è la delicata questione di gestire tutti gli aspetti di coinvolgimento che l’idea genera. Gli spot sono pensati per funzionare anche in rete e, quindi, bisogna saper ascoltare le reazioni che provocano e adeguarsi. Su questo lavora MSL Group, mentre il centro media (in questo caso PHD) dev’essere in grado di cambiare in tempo reale le pianificazioni. Ad esempio, l’uscita del secondo spot, soggetto “padre”, è stata anticipata di qualche giorno e quella del terzo, soggetto “postino”, programmata per i primi del prossimo anno, avverrà invece addirittura già nel prossimo week-end».